70. MADRE

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Il Saint Mary si presenta come un grazioso edificio in stile rustico costruito su una delle colline che circondano Sunset Hills. Il risultato è che, immerso nel profumo dei gigli e circondato da una vegetazione verdeggiante, somiglia più a una sorta di casolare che a un istituto medico anche piuttosto costoso. All'esterno, ci sono tavoli da picnic posti vicino a un chiosco e poltrone per rilassarsi all'ombra del portico coperto. Gli uccelli cinguettano, il vento soffia lieve tra le fronde e si sente persino il gorgoglio del fiume nascosto da un boschetto di betulle.

Tutto sommato, è un bel posto.

«Perché non c'è nessuno?» chiede mio padre, guardandosi intorno con diffidenza.

Abbiamo lasciato New Orleans alle sette di mattina e, dopo quasi quattro ore e mezza di volo in jet privato, siamo atterrati in aeroporto dove abbiamo recuperato l'auto di Alan. Essendo noi in cinque, ci siamo stati senza problemi; anche se Liam non deve aver apprezzato un viaggetto di trenta minuti stipato tra me e Klaus, io che gli davo un pugno al passaggio di ogni macchina gialla e lui assorto in un silenzio nervoso.

«Alizée avrà prenotato l'intera struttura per evitare che si spargesse la voce sul fatto che la ragazza era viva». Alan chiude lo sportello e si avvia per primo verso l'ingresso. «Hai un po' di problemi di fiducia o sbaglio?»

«Capita quando ti danno la caccia per sette anni».

Di colpo, la consapevolezza che sto per conoscere la mia gemella mi paralizza. Ho cercato di non pensarci, anzi fino a questo momento mi sono concentrata soltanto sul fatto che abbiamo amato lo stesso ragazzo o sull'impatto che questo avrebbe avuto sul nostro rapporto.

Non mi sono neanche fermata a riflettere su cosa provo a riguardo. Ho sempre voluto un fratello o una sorella, ma non era che un egoistico desiderio di avere qualcuno con cui condividere il dolore di ciò che ho vissuto. L'amore della famiglia è completamente diverso. È il voler stare insieme, non la paura di rimanere da soli.

Un tocco delicato mi sfiora la mano, riscuotendomi. Sollevo lo sguardo e incontro quello di Klaus. I suoi occhi grigi sono sufficienti a rilassarmi quanto basta per allentare un po' la stretta che mi attanaglia lo stomaco. Il resto del gruppo si è allontanato, quindi siamo rimasti da soli in mezzo al cortile.

«Stai bene, ficcanaso?» Prima ancora che io possa parlare, aggiunge in tono di rimprovero: «E non mentirmi».

«Noioso» borbotto, e le sue labbra si increspano in un sorriso. Comincio a smuovere l'erba con la punta di una scarpa, fissando il terreno. «Non so come dovrei comportarmi. Ho passato mesi con voi Hallander, ho visto quanto siete legati tra fratelli e non è una questione di sangue. Siete cresciuti insieme e avete imparato a volervi bene, a rimanere uniti, a proteggervi a vicenda. Sempre e comunque, come ripetete fino allo sfinimento».

Mi stringo nelle spalle, imbarazzata. «Io ed Elizabeth non saremo mai così. Potremo anche avere i genitori in comune, ma di fatto siamo due estranee. Magari lei nemmeno la vuole una sorella, o peggio ancora una sorella come me».

Klaus scoppia in una risatina che mi lascia spiazzata. Superato lo stupore per quella reazione, gli scocco un'occhiataccia torva. «Sono contenta che i miei drammi esistenziali ti divertano, grazie mille».

«No, non è questo. Te l'assicuro». Si piega sulle ginocchia, raccoglie un oggetto da terra, poi si risolleva. «Voglio mostrarti una cosa». Mi prende la mano, me la apre e deposita una piccola pietra sul palmo. «Ecco».

Assumo una smorfia ironica. «Wow, un comunissimo sasso! Se è il tuo regalo per il mio non-compleanno, sappi che sei un gran tirchio».

«Il giorno in cui avremo una conversazione seria al cento percento mi preoccuperò per la tua salute».

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