Epilogo

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Il giorno dello scambio, seduto sul letto accanto al borsone dopo che Sara era scesa al pianterreno, la testa fra le mani, Tonio aveva fatto il punto della sua situazione fisica e psichica. Aveva scoperto di essere stanco morto ed elettrizzato allo stesso tempo. Ma a meno di non covare sotto le ceneri di quello stato all'apparenza contraddittorio un infarto o un ictus, aveva preso atto di essere in grado di affrontare un altro piccolo shock: l'abbandono del tetto coniugale.

Si era anche stupito di quanto bene stesse reagendo alla sparatoria di qualche ora prima. Aveva scoperto di averla metabolizzata alla grande, quasi si fosse trattato della scena di un film e non di un avvenimento reale al quale lui e la sua famiglia avevano preso parte.

Aveva attribuito quella reazione all'età.

Forse, aveva pensato, quanto si diventa vecchi e si capisce di aver poco tempo a disposizione, il cervello non si sofferma più di tanto nemmeno sugli avvenimenti più tragici.

Forse, si era detto, se fosse stato più giovane, avrebbe passato le settimane successive, se non addirittura i mesi, a rinvangare l'accaduto e a preoccuparsi dei possibili strascichi.

Poi, però, aveva anche pensato che quella sua teoria non doveva essere del tutto corretta, considerato che non riusciva a smettere di rimuginare sull'inganno di Anna durato oltre quarant'anni.

Prima di uscire di casa con il borsone, aveva abbracciato Sara e le aveva detto che le avrebbe fatto sapere dove si sarebbe sistemato in modo che avessero potuto vedersi il giorno dopo.

Lei si era offerta di accompagnarlo, ma lui aveva rifiutato, sostenendo di avere estremo bisogno di stare da solo.

Anna era intervenuta, dicendo che a suo parere l'ultima cosa di cui lui aveva necessità in quel momento era starsene da solo. Ma lui l'aveva rimbeccata dicendole che della sua opinione non gli importava più niente.

A quel punto, Anna gli aveva chiesto un solo favore: che le rispondesse al telefono ogni volta che lei lo avrebbe chiamato e la informasse con sincerità sul suo stato di salute. Sarebbero bastate anche solo due parole: sto bene o, si sperava di no, sto male.

Lui non le aveva promesso niente e se n'era andato a piedi, con l'intenzione di raggiungere il bar da Gino e chiedere a Marco un passaggio fino in città, dove avrebbe cercato un affittacamere a buon mercato e dove avrebbe avuto meno probabilità di incontrare gente che conosceva a cui spiegare cosa ci facesse senza sua moglie accanto.

Per tutta la settimana successiva aveva alloggiato in un ostello nei pressi della stazione, incontrandosi quasi ogni giorno con Sara, parlando con lei di tutto quello che era successo e facendo previsioni su quello che sarebbe potuto succedere in futuro. Tre giorni dopo la strage, avevano commentato la notizia del terribile incidente stradale in cui avevano perso la vita quattro diplomatici russi.

Poi aveva preso in affitto un monolocale nella stessa zona. Sara era dovuta tornare a Roma e le sue visite si erano molto diradate. In compenso erano aumentate le telefonate. Una volta, forse poco prudentemente, lei gli aveva detto che dal suo rientro il direttore De Cato non si era più fatto vedere presso il centro. In un'altra occasione gli aveva confermato che Parise pareva essersene tornato nella sua bara in via definitiva, portandosi dietro il suo amico.

Un giorno Sara gli aveva chiesto se per caso non avessero immaginato tutto, se per caso la storia della bomba non fosse stata solo una lunga allucinazione collettiva di famiglia. E lui le aveva risposto che sperava tanto di convincersene, un giorno.

Dal momento del suo trasferimento nel monolocale, ogni volta che Anna lo chiamava, lui le diceva: «Sto bene. Veramente». E riattaccava.

Lei se lo faceva bastare, visto che non aveva mai insistito per andarlo a trovare, e tanto anche se con tutta probabilità sua figlia le aveva rivelato dove lui si era sistemato.

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