Afghanistan

Erano anni ormai che Manfred Krause pensava in italiano.

Più di recente, aveva anche acquisito la capacità di ragionare da italiano.

Il che a suo modo di vedere era un bene.

Soprattutto per la sua ulcera.

Gli italiani non si preoccupavano mai seriamente di nulla ed erano maestri nel dare la colpa di qualunque cosa agli altri. Di conseguenza, conducevano un'esistenza molto rilassata e non si sentivano mai responsabili di niente.

In linea con la nuova forma mentis, Manfed controllò l'ora sul suo costoso orologio da polso, prese atto che sarebbe arrivato in ritardo all'appuntamento, ma non se ne crucciò.

Non sarebbe morto nessuno. E dopotutto era stato il direttore dei servizi segreti afgani a insistere affinché si incontrassero nella sua villa di Kandahar, e non a Kabul, per la consegna della valigetta piena di denaro.

La compagnia di contractors di cui era titolare Manfred aveva bisogno di una semplice spinta per aggiudicarsi l'appalto milionario per cui era in lizza in quel Paese martoriato, e mezzo milione di dollari erano un prezzo più che ragionevole affinché il capo della Direzione nazionale di sicurezza intercedesse per la compagnia stessa nelle sedi opportune. Se poi l'afgano desiderava essere corrotto nella sua lussuosa dimora, allora non poteva certo lamentarsi se c'era da aspettare un po' per incassare quanto pattuito.

Manfred tornò a guardare in avanti, oltre il parabrezza, ammirando la desolazione ai lati della strada in quel momento deserta.

Per fortuna.

Era seduto sul sedile posteriore di un mostruoso Suv GMC nero, proprio dietro l'autista. Alla guida c'era Mauro. Sul sedile anteriore destro, c'era Giorgio. Dietro, accanto a lui, sedeva Antonio.

I suoi dipendenti erano tutti italiani e tutti ex militari provenienti da reparti d'élite che a un certo punto della loro vita avevano capito che grazie al loro addestramento potevano fare molti più soldi lavorando per un privato che non per lo Stato.

Il veicolo procedeva al centro di un convoglio formato da altri due Suv della General Motors occupati da tre mercenari ciascuno.

La carrozzeria dei tre mezzi era blindata e i vetri erano a prova di proiettile.

Tutti, Manfred compreso, indossavano giubbotti antiproiettile.

Ogni soldato era armato di fucile d'assalto Beretta ARX 160A3, oltre a portare addosso la propria pistola personale.

Manfred, invece, aveva solo una Glock 17 in una fondina ascellare posta sotto un elegante cappotto e sopra un rozzo quanto funzionale gilet balistico.

Meglio andare sul sicuro in quel Paese di merda.

Il Suv prese una buca così profonda che le efficienti sospensioni non riuscirono a livellare del tutto.

Un tempo Manfred avrebbe imprecato, dicendosi che se fossero stati i tedeschi a governare quella nazione, quella strada maledetta non sarebbe stata in quelle condizioni. Nemmeno dopo una guerra. Nemmeno con i talebani e altri criminali che continuavano a farci agguati a suon di ordigni esplosivi improvvisati. Ma essendosi ormai italianizzato in tutto e per tutto, non se la prese più di tanto.

Anzi per niente.

Non era affar suo. E non era colpa sua se il tratto afgano dell'Asian Highway 1 che collegava la capitale alla seconda città del Paese era in quello stato pietoso.

Sospirò.

Un altro sport nazionale italiano era lamentarsi, sebbene nessuno lo praticasse perché avesse per davvero a cuore qualcosa.

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