Omicidio

Anna entrò nella casupola degli interrogatori seguita dal suo collega Parise, che si richiuse alle spalle la pesante porta di ferro che vi dava accesso.

Sulle pareti non si aprivano finestre, ma dal soffitto penzolava un potente neon, la cui luminosità teneva egregiamente a bada le poche ombre che avrebbero potuto formarsi in un locale rettangolare arredato solo con un tavolo di legno e tre sedie.

Prima di portare la sua attenzione sull'uomo seduto al centro della stanza, Anna si appropinquò al tavolo e osservò con cupidigia gli oggetti che vi erano adagiati sopra.

Un martello, delle forbici, pinze e una limetta per le unghie sottile e appuntita dotata di manico nero: tutti utensili che rendevano più facile la vita di tutti i giorni, ma che se rivolti contro un essere vivente pieno di nocicettori potevano fare male.

Molto male.

Anna si chiese se il sadismo non fosse per caso una malattia infettiva.

Se lo era, lei ne era stata contagiata, magari da uno degli esperti americani che aveva visto all'opera fra quelle stesse mura.

Sperava quasi che il loro ospite si intestardisse a non rispondere alle domande che gli sarebbero state riproposte quella mattina, cosicché lei avrebbe potuto praticargli la sua amata manicure.

Cazzo, devo farmi vedere da uno bravo.

Guardò il prigioniero.

In boxer e canottiera lerci, l'uomo era accasciato su una sedia, i polsi assicurati ai braccioli da un paio di fascette stringicavo autobloccanti, le caviglie legate l'una all'altra da una corda robusta.

Era un irregolare tunisino affiliato ad Al Qaeda, che in una telefonata intercettata dall'NSA aveva detto al suo interlocutore (un altro animale ancora non identificato che aveva ricevuto la chiamata su un cellulare rubato) di essere pronto a farsi esplodere all'interno del Duomo di Milano insieme ad altri fratelli nel corso della prossima messa pasquale.

Per questa ragione, la CIA lo aveva sottoposto a extraordinary rendition. In pratica alcuni operativi dell'agenzia, in collaborazione con un paio di colleghi italiani dell'AISE, lo avevano rapito nel capoluogo lombardo, mentre si recava a casa sua dopo essere stato in moschea. E in attesa di trasferirlo a Guantanamo dove gli avrebbero fatto omaggio di una bella tutina arancione, lo avevano trasferito nel centro gestito da Anna e dal suo socio, quello ai margini della foresta, per permettere a servizi locali, interni ed esteri, di fargli qualche domanda.

«Potresti guardarmi?» gli chiese Anna, con calma.

Il tunisino aveva la testa ciondoloni e non alzò lo sguardo.

Forse non l'aveva nemmeno sentita.

Non dormiva da giorni.

Fuori dalla camera in cui era alloggiato erano state piazzate due enormi casse che pompavano musica ad alto volume ventiquattr'ore su ventiquattro.

Inoltre, dal suo arrivo, era stato regolarmente malmenato dai militari che fungevano da carcerieri e Parise si era sbizzarrito a tagliuzzarlo un po' almeno due volte al dì.

Ma lui non aveva ancora ceduto.

Non aveva ancora rivelato il nome dell'uomo con cui aveva parlato nel corso della telefonata intercettata e continuava a sostenere di non avere complici e che quindi gli altri fratelli pronti a seguirlo nel martirio erano una sua invenzione volta a far credere al suo amico di far parte di un'organizzazione più ampia, mentre in realtà aveva progettato di farsi saltare in aria da solo dopo essersi imbottito i vestiti con la miscela di ANFO che in seguito alla sua scomparsa la polizia italiana aveva rinvenuto nella sua abitazione.

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