«Sono a una partita di hockey sul ghiaccio» gli spiegò Parise.

Tonio avviò il video.

Cominciava con Golovin e Al-Dossari l'uno di fianco all'altro, così come si vedeva nell'anteprima.

I due erano in primo piano, o almeno le loro spalle lo erano, e non si capiva bene cosa stesse accadendo sul campo da gioco. Qualunque cosa fosse, gli spettatori sembravano rabbiosi.

Dopo qualche secondo, appena la folla si fece più silenziosa, il russo si voltò verso il saudita e gli rivolse un impercettibile segno con la testa.

Dopodiché, si mise una mano nel parka e ne tirò fuori quello che sembrava un pacchetto quadrato di cartoncino marrone o una cartellina piegata più volte.

Al-Dossari ricevette l'involucro e se lo fece sparire sotto il giubbotto.

Si allontanò un istante più tardi.

Per fare lo stesso, Golovin aspettò poco più di cinque minuti.

Lo schermo del tablet diventò nero.

Le immagini, molto più mosse, tornarono a scorrere poco prima che Tonio decidesse che quello che aveva appena visto fosse tutto quello che c'era da vedere.

Il russo, sempre di spalle, stava percorrendo un ampio e lungo corridoio di cui non si vedeva la volta. E nemmeno la fine. Era attorniato da uomini, donne e bambini vocianti, molti dei quali indossavano divise sportive di colore prevalentemente blu, con sulla schiena numeri sormontati da parole in cirillico, di sicuro i cognomi dei giocatori più amati dai tifosi.

Golovin raggiunse l'uscita in poco più di un minuto.

Fuori era buio, ma le luci della città fecero in modo che il video non scadesse di qualità.

Ai lati della strada e sui marciapiedi c'erano cumuli di neve.

Il fiato delle persone che il russo incrociava si condensava in nuvolette bianche davanti alle loro bocche.

Golovin camminava a passo svelto.

Dopo nemmeno cinque minuti entrò in quello che pareva un ampio parcheggio stracolmo di veicoli e di persone intabarrate in soprabiti pesanti che sciarpe, cappellini e bandierine identificavano comunque come tifosi in ritardo.

Il video ebbe un'altra pausa.

Ricominciò con uno stretto primo piano del volto glabro e dalla forma allungata di Golovin.

Dopo qualche istante, l'inquadratura si allargò nuovamente a mostrare il russo nei pressi di un grosso SUV con i vetri neri.

A un certo punto, il finestrino anteriore destro del mezzo si aprì sul viso alquanto ordinario di un uomo che dimostrava al massimo cinquant'anni, con capelli brizzolati e occhi chiari e scrutatori.

Golovin e l'uomo nell'abitacolo si scambiarono sguardi d'intesa. Poi il russo montò sul sedile posteriore del veicolo, il finestrino si richiuse e il SUV partì.

Qualche secondo più tardi il filmato si arrestò definitivamente.

«L'uomo in macchina è Popov» spiegò Parise.

Avendolo già intuito, Tonio si limitò ad annuire.

L'avvocato reclamò il tablet con un gesto della mano.

Tonio glielo restituì.

«La storia che Popov ci ha somministrato è un miscuglio di verità e bugie. Ci ha detto che i sospetti circa la possibile infedeltà di Samedov sono partiti dall'FSB, il servizio di intelligence interna. Tuttavia i dubbi sono diventati certezze solo dopo l'ultimo incontro tra Semedov e Al-Dossari, avvenuto due settimane fa, il giorno dopo la morte di Krause, in una camera d'albergo d'infimo livello a Mosca. Sempre secondo il resoconto di Popov, una squadra della sezione antiterrorismo dell'FSB sarebbe riuscita a filmare l'appuntamento e avrebbe prontamente avvertito l'SVR di cui Samedov faceva parte. E' stato a questo punto che Popov avrebbe preso in mano le redini della situazione, facendo arrestare il traditore ed estorcendogli con la forza tutta la verità, prima di dargli il benservito eterno. Durante l'interrogatorio a cui è stato sottoposto, Samedov avrebbe confessato di aver messo in vendita l'identità di tale Manfred Krause, ex STASI ed ex SVR coinvolto in Strike Zero, e di essere stato contattato verso la fine dello scorso anno da un saudita, tale Yasser Al-Dossari, incaricato da Dar al-harb di procacciarsi un ordigno nucleare. Samedov avrebbe anche svelato che, prima di vedersi all'interno del palazzetto del ghiaccio di San Pietroburgo per il passaggio del dossier sul tedesco, lui e l'arabo si erano incontrati tre volte allo scopo di accordarsi sull'entità e le modalità del pagamento. Nell'ultimo di questi colloqui preliminari, Al-Dossari avrebbe confidato a Samedov che i soldi ce li avrebbe messi lo sceicco Al-Shahrani, in seguito a debito ricatto. I rapporti fra Samedov e Al-Dossari avrebbero dovuto concludersi alla partita di hockey, non fosse stato per il guaio combinato dalla squadra afgana messa insieme dal saudita per rapire Krause. Al-Dossari era presente al momento del fallito agguato e solo qualche ora dopo si sarebbe imbarcato su un volo per Mosca allo scopo di raccontare a Samedov cosa fosse accaduto e soprattutto per chiedergli se per caso non ci fosse qualche altra strada da battere per risalire all'ubicazione della bomba che il tedesco ormai defunto non aveva mai riportato in Russia. I due si sarebbero visti nella camera d'albergo di cui sopra e Samedov, ignaro di essere tenuto sotto sorveglianza da uomini del controspionaggio nascosti in un appartamento dall'altra parte della strada, avrebbe confidato al saudita che in effetti si poteva fare un disperato tentativo con un'italiana reclutata da Krause durante la guerra fredda, una donna ormai anziana che però poteva sapere qualcosa su che fine avesse fatto l'ordigno. Ma quel punto Samedov sarebbe stato fermato e, spiattellando tutto, compresa la possibilità da ultimo prospettata al saudita, avrebbe dato a Popov l'idea di venire in Italia per sincerarsi che Blondinka non avesse mai avuto nulla a che fare con la sparizione della bomba; sparizione che la documentazione in archivio addebitava in maniera esclusiva al latitante Lothar Brehme.»

Tutto ciò che si nascondeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora