Aurora: L'apertura del Sigillo

33 - Jules

Quel leggero dondolio mi aveva sempre dato conforto. Papà aveva costruito quel dondolo di legno sul retro della casa in modo che la brezza fresca che arrivava dal bosco ci regalasse il profumo della resina che colava dai tronchi degli alberi e ci portasse il canto del vento che spazzava le cime degli alberi. Diceva che era un modo per sentirsi immersi nella natura, per poter ascoltare la sua voce. Solamente in quel momento capivo quanto quell'angolo della casa significasse per la nostra famiglia. Era lì che ci riunivamo quando ci rilassavamo tutti insieme ed era lì che ci rifugiavamo quando volevamo stare da soli.

Quel giorno potevo vedere il vento giocare con le chiome degli alberi, potevo sentire il profumo delle foglie umide ma la voce della natura non mi dava nessun conforto. Me ne stavo rannicchiata sul quel dondolo, avvolta in una morbida coperta, con un cuscino stretto al petto, come se potesse proteggermi, come se quella coperta potesse scacciare il gelo che sentivo dentro. Una lacrima scivolò sulla mia guancia.

Le odiavo.

Odiavo quelle lacrime.

Dicevano tutto sulla mia debolezza e sulla mia codardia. Ogni lacrima che avevo versato in quei giorni aveva scavato a fondo dentro di me, come l'acqua che erode la roccia, lasciando solamente uno stagnante e putrido pozzo nero. Tutta la vergogna che provavo verso me stessa gorgogliava in quella voragine e puntualmente risaliva in superficie come acido, che mi bruciava la gola, ogni volta che pensavo a Eric.

Era tutta colpa mia.

Se non fossi stata così stupida e inutile forse lui adesso sarebbe stato lì con me, e Tess e Ren non avrebbero rischiato di morire.

Sobbalzai quando davanti ai miei occhi rividi la palla di fuoco che aveva avvolto gli alberi dopo che l'esplosione aveva squassato il bosco. Era stato pochi attimi prima, quando avevo preso le mani di Eric, e l'avevo guardato negli occhi, che un'onda impetuosa di ricordi si era riversata nella mia testa.

Avevo ricordato ogni cosa.

Si chiamava Valerio Anzio Rufo ed era un soldato della legione romana arrivata da due giorni nel nostro villaggio. Tutti avevano paura dei soldati romani. Era risaputo che fossero spietati e che ovunque andassero compissero saccheggi e massacri. A noi giovani sacerdotesse della Dea era stato proibito di avvicinarci, ma non ero mai stata un tipo tranquillo né tantomeno rispettoso delle regole. La Somma Sacerdotessa mi ripeteva sempre che le divinità dovevano aver fatto un pasticcio quando mi avevano benedetto con i loro doni perché dovunque andassi e qualunque cosa facessi combinavo sempre qualche guaio. Questo avrebbe dovuto trattenermi dal fare quello che stavo facendo in quel momento ma volevo vedere se era vero quello che si diceva di quelle belve arrivate da sud. Era sera e mi muovevo col favore delle tenebre. Non era stato semplice sgattaiolare fuori dal tempio ma avevo imparato un paio di trucchetti per passare inosservata quando di notte mi intrufolavo in cucina per rubare qualche cosa da mangiare. Mantenendomi sempre nelle zone d'ombra raggiunsi il limitare dell'accampamento, mi nascosi dietro una catasta di casse dei rifornimenti e sbirciai verso l'accampamento.

I soldati era radunati intorno ai fuochi, bevendo e urlando parole incomprensibili e agitandosi come se fossero posseduti da qualche demonio. Le loro bocche, circondate da ispide barbe, si fiondavano sul cibo come avrebbe fatto il più volgare animale selvatico. Le loro armature rilucevano come se sulla loro superficie danzassero le fiamme dell'inferno stesso.

Erano veramente demoni venuti dal sud. Quell'incubo primordiale mi avrebbe terrorizzato per il resto della mia vita. Mossi le mie gambe tremanti per tornare al tempio, per la prima volta nella mia vita sapevo esattatene quale fosse la cosa giusta da fare, ma una voce bassa e profonda si rivolse a me in una lingua sconosciuta.