38 - Eric

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Quando tornai in me mi colpì come prima cosa l'odore dell'umidità intrisa di disperazione che permeava quelle celle che dissipò immediatamente il torpore dell'incoscienza. I miei occhi vagarono cautamente in giro, improvvisamente vigili. Sull'angolo alla mia destra c'era un vecchio materasso, talmente lurido e liso che non l'avrebbe scelto come giaciglio neanche un ratto. Non c'erano mobili di alcun genere né nulla che potesse rendere meno sgradevole la permanenza lì. Quello era un luogo concepito per gettarti nella disperazione e per spezzarti nello spirito. Sulle pareti di roccia riuscii a scorgere qualche incisione. Immaginai che potessero essere gli ultimi messaggi di addio consegnati alla pietra dalle povere anime che avevano trovato la fine in quel luogo ma ben presto mi resi conto che qualcuno aveva lasciato quei segni con le unghie, strappandosele nel tentativo disperato e vano di cercare una qualunque via di fuga. Fu allora che capii che le macchie scure sulle pareti e sul pavimento erano il sangue di quei poveri disgraziati. Disgustato voltai il capo, perché non sopportavo la vista della prova del dolore di cui ero stato responsabile e la vergogna rischiava di farmi precipitare di nuovo nella disperazione. Individuai il punto esatto da cui l'acqua, filtrando attraverso la roccia, colava dal soffitto creando la pozza in cui si infrangevano le gocce che tanto avevano dato pena alla mia testa. In quel momento quel gocciolio costante sembrava addirittura rassicurante. Mi sorpresi di poter cogliere così tanti dettagli, come se la mia vista fosse insolitamente a fuoco, e quando mi spostai per cercare una posizione più comoda non sentii nessun dolore. L'immagine del luogo dentro di me dove ero stato l'ultima volta che ero stato cosciente di me stesso attraversò la mia mente. A quel ricordo, nella parte più profonda del mio essere, si fece sentire un brontolio sordo, confermandomi che il mio potere era lì con me e che quello che avevo vissuto non era solamente il frutto del delirio causatomi dalle percosse. Voltai la testa verso la parte sinistra della cella in cerca del mio compagno di prigionia. Se ne stava come al solito appoggiato alla parete in apparente stato vegetativo ma ormai sapevo che non era così. Volevo parlare con lui, chiedergli chi fosse e dove avesse imparato quello che aveva condiviso con me ma preferii rimanere in silenzio e non interromperlo, qualunque cosa stesse facendo. Esaminai la porta della cella in cerca di un indizio che rivelasse la presenza di qualcuno oltre il battente. Dovevo essere molto cauto. Qualcuno avrebbe potuto capire che le mie condizioni erano cambiate e riferirlo ad Alexander. Ero sicuro che non ne sarebbe stato affatto felice e avrebbe sfogato la sua frustrazione trovando un modo ancora più atroce e violento per costringermi a capitolare. Non avevo idea di quanto tempo fossi rimasto incosciente e questo significava che i miei aguzzini sarebbero potuti tornare in qualsiasi momento. Dovevo evitare che capissero che mi ero ristabilito perciò avrei dovuto permettere loro di pestarmi come avevano fatto fino ad allora intanto che con la mia riacquistata lucidità studiavo un modo per andarmene, per tornare da Jules. Attesi per un tempo che apparve lunghissimo che qualcuno venisse per me ma stranamente non apparve nessuno. I miei sensi, stranamente vigili, non registrarono nessun rumore, non solo i corridoi della prigione erano insolitamente silenziosi ma che i rumori delle solite attività del castello non si sentivano. Ero troppo addestrato per non capire che c'era qualcosa di strano in quell'insolito silenzio. Quella consapevolezza mi fece rizzare i peli sulle braccia.

Alla fine era arrivata.

Era la quiete prima della tempesta.

Aurora: L'apertura del SigilloDove le storie prendono vita. Scoprilo ora