Capitolo 25

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Con un calcio Altea si liberò della presa di Elia. Lasciò cadere il tubo a terra ed Elia se lo strappò dal braccio, ormai preda dell'effetto della droga. Altea corse verso Riccardo, salì sul letto e gli prese il viso fra le mani. Quando vide i suoi occhi aperti scoppiò in lacrime e lo strinse forte, sussurrandogli all'orecchio: «Mi dispiace. Mi dispiace.» I suoi capelli erano sporchi e incrostati di sangue, non era rimasto niente della bella chioma che ricordava di quel giovane e avvenente ballerino del White Moon. Quel Riccardo era fragile, debole, e per niente sfacciato. «Devi riprenderti. Devi riprenderti.»

Lo sferragliare delle catene, il ringhio soffuso di Elia la faceva tremare, ma lei non staccava gli occhi di dosso da Riccardo. Aveva deciso deliberatamente di ignorare il pericolo alle sue spalle, quello che muoveva la struttura del letto sopra la quale era inginocchiata, facendola barcollare.

«Altea, devi togliermi queste catene. Mi fanno male. Ti prego.»

Prese a canticchiare una canzone sottovoce, cercando di non ascoltare le parole di Elia, di non lasciare che la sua paura prendesse il sopravvento, portandola a fare scelte stupide. Si guardò attorno, cercando un'arma, ma oltre al tubicino che continuava a gocciare argento non c'era nient'altro. Erano gocce lente e infinitesimali, niente che avrebbe potuto usare contro il licantropo, che continuava a dimenarsi e a ringhiare, mentre lei continuava a coccolare Riccardo, a canticchiare la canzone.

Non si era mai sentita così sola. Mai. In quegli ultimi istanti si rese conto che sarebbe morta da sola, inseguendo l'idea di una vita fatta di avventure, lasciando che la rabbia e il risentimento che provava per sé stessa le impedisse di vedere. Sì, perché la verità era che quel fuoco che sentiva dentro, quella perenne sensazione di malessere che la faceva scattare, che le faceva recepire le parole degli altri come un attacco, portandola a litigare, a stare sempre sulla difensiva, non erano altro che il frutto della rabbia che covava verso sé stessa. Sapeva di non potersela prendere con Damiano, e per quanto fosse ridicolo, sapeva anche che in qualche modo le aveva voluto bene. Ma solo lei era responsabile delle sue scelte. Lei aveva deciso di lasciarsi sopraffare dai sentimenti, di non vedere, di giustificare. Lei era stata l'artefice del suo dolore, la stessa persona che si era ripromessa di pensare al lavoro e alla sua casa, che non accettava nemmeno un regalo, che stava sempre sulle sue, convinta che sarebbe stata felice spaccandosi la schiena e pensando a sé stessa. E quale era stato il risultato? Che dopo tanto tempo si era sentita di nuovo parte di qualcosa. Aveva riscoperto il valore di condividere... condividere la proprio vita, il proprio tempo. E aveva scoperto quanto può far male quando la persona con la quale lo condividi non c'è più. Allora che scelta aveva? Soffrire da sola, o soffrire doppiamente riaprendo il proprio cuore... La battaglia che da tempo si agitava nella sua testa. Ma ormai niente di tutto questo aveva importanza. Sarebbe morta, e questo era quanto. Non importava più quanto fosse arrabbiata, cosa aveva fatto o cosa no. Forse aveva sbagliato tutto, o forse le cose dovevano andare così. Avrebbe rivisto i suoi genitori, finalmente sarebbero stati insieme. Questo la consolava.

Il rumore delle catene che si spezzarono le fecero chiudere gli occhi, stringersi a Riccardo e rallentare il respiro. Lo sentì avvicinarsi a lei, posargli le mani sulla vita e sollevarla di peso, portandola viso a viso con lui. I suoi occhi gialli erano alienati, non erano più gli occhi gentili di Elia, ma quelli di un predatore drogato. Si sentiva piccola nelle sue mani, tanto che pensava avrebbe potuto spezzarla con una singola stretta. Le leccò il viso tirando via il sangue di Riccardo e Altea ebbe difficoltà a trattenere un lamento di paura.

«Nemmeno il sangue di un lupo riesce a nascondere il tuo odore» disse mentre si leccava le labbra. «Mi chiedo che sapore hai lì sotto» aggiunse guardandola in modo talmente intimo e erotico da farla sentire nuda.

«Elia, ti prego...» piagnucolò, cercando di spingerlo via, ma lui era troppo forte.

«Mi eccita l'idea di scopare con un'umana ricoperta di sangue di lupo.»

Non era lui. Non era lui. Le afferrò i capelli e le tirò la testa indietro, stringendola contro il suo corpo. Un dolore lancinante, straziante la fece gridare. I denti di Elia erano affondati nell'incavo tra la spalla e il collo, straziando la carne. Si allontanò e si leccò la bocca ricoperta di sangue. «Hai un buon sapore.» Non era come i vampiri. Non si riferiva al suo sangue, ma alla sua carne.

La gettò a terra e le afferrò le caviglie, divaricandogli le gambe. Altea prese a scalciare, a urlare, a pregare, ma lui era troppo forte e, come fosse un piatto prelibato, si avvicinò e le morse l'interno coscia. Altea non credeva di aver mai urlato così tanto. La ferita sul collo era profonda e una quantità infinita di sangue sgorgava dai piccoli fori sulla carne.

Il dolore sulla gamba si intensificò quando Elia fu spinto via e i suoi denti strapparono la carne. Qualcuno si inginocchiò accanto a lei, troppo debole per aiutarla ad alzarsi. Gli occhi di Riccardo, nascosti dietro al sangue e alle palpebre gonfie, furono come un'isola in mezzo al mare in tempesta. Aveva il fiato corpo, sembrava un pezzo di carne maciullata che in quale modo aveva ancora la forza di muoversi, ma era lì. Con lei.

Altea era troppo spaventata per alzarsi, atterrita dalla paura non riusciva a muoversi, restando stesa a terra, tremando, piangendo, mente i suoi occhi non si staccavano da quelli del licantropo.

«Riccardo.» La voce di Elia sferzò con un lampo nel cielo scuro. «Amico mio» aggiunse poi in tono più docile, come non avesse controllo delle sue emozioni. La scavalcò come non fosse altro che merce avariata e strinse il suo amico in un abbraccio, provocandogli una smorfia di dolore. «Sono felice di vedere che stai bene.»

«Elia» sussurrò Riccardo, in fin di vita. «Sei stato drogato. Devi fermati.»

«Fermarmi?» chiese Elia, come se non capisse a cosa si stava riferendo. Poi guardò lei, come non si ricordasse nemmeno della sua presenza, e sorrise come se l'osservazione dell'amico fosse semplicemente ridicola. «No, io e Altea ci divertiamo. Non è vero, dolcezza?» domandò afferrandola per il polso del braccio ferito e tirandola in piedi. Quel gesto le provocò una fitta di dolore talmente forte da farle girare la testa, costringendola ad appoggiarsi a lui.

«Elia devi fermarti. Devi fermarti. Ascoltami...» ma Riccardo cadde a terra, troppo debole per parlare. Elia lo guardò con disinteresse, poi scoppiò in una risata insensata, il suo petto che si muoveva su e giù contro lo sterno di Altea. «Non sembra stia molto bene, non è vero?»

Altea cercò di spingerlo via e allontanarsi, ma Elia strinse la presa, attirandola a sé. Le leccò la ferita sulla spalla destra e le tastò il sedere, strusciandosi su di lei.

«Elia, fermo.» La sua voce era ridotta a un rantolo.

Le spostò i capelli dal collo, esponendo la spalla sinistra, pregustando il terzo morso che le avrebbe dato. La stava mangiando viva.

«Lascia che ti assaggi ancora un po'.»

Vide il suo viso avvicinarsi a lei e sparire oltre il lato sinistro della sua vista periferica. Altea chiuse gli occhi, preparandosi alla fitta di dolore, pensando che questa volta non ce l'avrebbe fatta a sopportarlo.

Poi un'esplosione.

L'ora bluDove le storie prendono vita. Scoprilo ora