Capitolo 40

192 18 4
                                    

Gertrude era in piedi, all'entrata dell'alimentari del Signor Mimmo, e parlava animatamente con un'altra signora dai capelli color della neve. Altea riuscì a sentire solo poche parole mentre la macchina passava oltre: «... io l'ho sempre detto. Quella ragazza porta guai. E poi ho saputo che...»

Non era passata inosservato nemmeno l'occhiata accigliata che aveva dato alla macchina. Probabilmente tra nemmeno due minuti tutto il paese avrebbe saputo che lei e Matilde erano tornate a casa. Anzi, era probabile che qualcuno avesse già telefonato ai suoi genitori.

La sua casa non le era mai sembrata così piccola e vecchia. Era felice di essere tornata, l'odore degli alberi che le entrava nelle narici la fece tornare a respirare, come se fino a quel momento avesse trattenuto il fiato. Luigi era passato tutti i giorni ad occuparsi delle galline e con sorpresa, anche se forse se lo sarebbe dovuto aspettare, il terreno della sua casa era pulito, la terra girata e il piano terra della sua casa, che usava come magazzini, era pulito e curato. Tutto questo mentre lei era sparita per più di un anno senza mai farsi sentire.

Salì la scalinata di pietra e quando aprì la porta una zaffata di ricordi le invase la mente.

Aprì la finestra, facendo entrare il sole, l'aria fresca, e solo quel gesto fu abbastanza per favorire altri ricordi. Si sedette su una delle sedie della cucina, le braccia poggiate sulle gambe e decise di rimanere lì. Non sapeva per quanto. Sapeva solo che aveva bisogno di fermarsi.

Era tornata a casa. Quella era casa sua. Era il suo luogo sicuro, in un immaginario infantile che apparteneva alla sé bambina. Era la casa dei suoi genitori. C'era amore lì dentro. Poteva respirarlo, percepirlo. Allora perché si sentiva soffocare? Perché vedeva le pareti stringersi intorno a lei, schiacciandola, uccidendola.

Prese la borsa e uscì velocemente. Si chiuse la porta alle spalle, corse giù per le scale e cercò la sua vecchia bici. Era pulita, sistemata, le ruote gonfie, come se Luigi avesse saputo che sarebbe tornata.

Con la borsa sul braccio, in modo goffo e doloroso, pedalò oltre la strada sterrata fino al punto in cui spariva nel bosco. Pedalò sotto gli alberi, velocemente, il peso della valigia che le segava il braccio, senza riuscire a restare in equilibrio, la pelle che bruciava, il petto che le doleva.

Poi fu a terra.

La borsa aveva attutito il colpo, facendola rotolare oltre di essa. Il ginocchio destro bruciava, così come il braccio, corroso dalla maniglia della borsa.

Rimase a terra. Sopra di lei quelli che si divertiva a chiamare i "capelli degli alberi". Delle folte chiome verdi si muovevano a ritmo del vento. Le cicale mettevano in scena il loro concerto mentre qualche giovane uccello saltava di ramo in ramo per portare il cibo ai propri piccoli.

Chiuse gli occhi e inspirò, come faceva sempre quando qualcosa non andava. Poteva aver avuto una brutta giornata, poteva essere triste o arrabbiata, ma non c'era stata una volta che, nel momento in cui aveva sollevato gli occhi verso l'alto, che il verde di quei giganti non l'avesse fatta tornare a respirare. Le sembrava di sentire le loro radici forti e possenti dentro la terra, un'ancora a ciò che lì teneva in piedi. Poteva sentire l'odore della corteccia, le foglie fresche, gli aghi pungenti, l'odore smielato delle pigne.

Voleva essere un albero. Avere radici forti, sapere che niente avrebbe potuto abbatterla. Essere solida per se stessa e una casa per le persone che amava. Voleva essere leggera come le fronde che si lasciano muovere dal vento, ruvida come il tronco, dolce come la resina. Affilata come gli aghi.

Voleva essere parte di qualcosa di più grande, qualcosa che potesse essere suo e che sarebbe rimasto. Un amore al quale poter attingere anche quando lei sarebbe stata distratta. Un porto sicuro per se stessa e per altri.

L'ora bluDove le storie prendono vita. Scoprilo ora