Capitolo 33

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Era una mattinata soleggiata. Una delle tante.

Anche quel giorno Altea si era svegliata e Matilde non era in casa. Non aveva chiesto bene cosa fosse successo quella sera. L'ultima cosa che ricordava era la mano di Ginevra infilata nel petto di Matilde, tanto profondamente da nascondere quasi tutto l'avambraccio. Gli occhi strabuzzati della sua amica. La bocca dischiusa in un suono strozzato. Poi il suo corpo e la sua mente non avevano più retto.

Aveva scoperto che i morsi di Elia non erano stati dati con denti umani, ma con una parziale trasformazione di denti da lupo, come se avesse voluto affondare più a fondo nella carne, e se ne era accorta solo quando le avevano messo i punti. Ora sulla sua clavicola e sull'interno coscia della gamba destra sarebbero rimaste per sempre due spicchi di luna frastagliati rivolti l'uno verso l'altro.

Ma la ferita che aveva subito Matilde era più profonda, e non portava cicatrici visibili a occhio nudo. Questo grazie al sangue di vampiro. Ma quanto gliene aveva dato? Era già morta o era ancora viva? Non glielo aveva mai chiesto e Matilde non ne aveva mai parlato. Anzi, non parlava proprio più.

Era andata a trovarla in pasticceria qualche volta. Era dedita al suo lavoro, non staccava mai, non faceva mai una pausa, e di certo non aveva bisogno di lavorare visto tutti i soldi che il Consiglio dei Cacciatori le aveva dato. Avevano ammesso di essere in errore, Falco si era scusato per non aver capito, per non avergli creduto. Cross no. Anzi, sembrava quasi infastidito dalla loro presenza. Le avevano pagate per la missione, per gli infortuni e avevano dato a entrambe una buona uscita che si sarebbe potuta definire eccelsa, non buona, con la quale probabilmente avrebbero campato per dieci anni senza dover lavorare. Eppure Matilde continuava a lavorare, a lavorare, a lavorare...

Amelia era sparita. Dopo quel giorno nessuno aveva più avuto notizie di lei. Léandre... Altea sentiva ogni tanto una leggera brezza nel suo cervello che sembrava solo volersi assicurare che fosse viva, non abbastanza invadente da leggere la sua mente. O almeno così credeva. Si erano parlati solo una volta. Le aveva detto che Caterina era salva e che se voleva parlare sapeva cosa doveva fare per cercarlo.

Il marchio sull'avambraccio le sembrava freddo al tatto. Il piccolo spicchio di luna aveva le punte all'insù e una piccola goccia di forma romboidale, che sembrava essere decisamente appuntita quasi fosse un'arma, ricadeva verso il centro, fermandosi poco prima di andare a schiantarvisi contro.

Si fece un bagno. C'era una grande vasca da bagno e Altea ci versava dentro sempre tantissimo sapone per fare la schiuma. Vi rimaneva immersa finché non le si raggrinzivano i polpastrelli, mentre guardava fuori dalla finestra la lunga distesa che era il mare. A volte si infilava con la testa sott'acqua e rimaneva lì fino a che non sentiva esplodere i polmoni.

C'era un bel silenzio lì sotto. Si sentiva in pace.

Qualcuno bussò alla porta.

Il cuore di Altea accelerò un battito, perché raramente qualcuno aveva bussato a quella porta, e se era successo era sempre Matilde che scordava le chiavi. Probabilmente anche quella volta se ne era dimenticata.

Uscì dalla vasca, i capelli che grondavano acqua, i piedi scalzi. Si avvolse un asciugamano intorno al seno rotondo e sodo e camminò in punta di piedi fino all'ingresso. Le bastò uno sguardo nello svuota tasche per rendersi conto che le chiavi di Matilde non erano lì.

Sì scostò, mettendosi con le spalle contro la parete. «Chi è?» chiese mentre con gli occhi guardava verso la cucina per vedere l'arma a disposizione più vicina.

«Luigi.»

Ora sì che il cuore prese a martellare. Le rimbombava nelle orecchie.

Non aveva più sentito Luigi, o per lo meno, lo aveva sentito poche volte. A volte non gli rispondeva, o se sentiva la sua voce attaccava. Non perché non desiderasse parlare con lui, ma perché le bastava il suono della sua voce per far crollare quell'architettonico muro di mattoni che la divideva dalle sue emozioni. Non gli aveva dato l'indirizzo di casa, quindi fu sorpresa di sentire la sua voce e si chiese come avesse fatto a trovarla.

Si mise davanti alla porta e avvicinò una mano tremante alla maniglia. La abbassò e aprì piano, piano.

Un ragazzo, o per meglio dire un uomo alto, dal fisico definito, era lì di fronte a lei, con indosso una maglietta bianca a maniche corte che gli fasciava il petto e le spalle larghe e che rimaneva più morbida sull'addome infilata in un paio di pantaloni beige, con una cinta marrone e scarpe marroni. Luigi era quasi irriconoscibile ai suoi occhi. Non solo perché non lo aveva mai visto vestito con quei colori, ma perché sembrava diverso. Cresciuto, forse. Temprato.

Gli occhi di lui non scorsero mai sul corpo di Altea, né sull'asciugamano che l'avvolgeva, ma rimasero inchiodati nei suoi. I suoi capelli erano più lunghi di come li ricordava, pettinati all'indietro con le mani, un ciuffo ribelle che gli ricadeva sulla fronte ma senza arrivare davanti agli occhi.

«Ciao.»

Non fu solo la sua voce, ma lo sguardo che brillava, l'affetto nei suoi occhi color dell'ambra, come se non se ne fosse mai andata. Si aspettava di vederlo arrabbiato, deluso forse. O forse non si aspettava di vederlo affatto. Tutto, ma non di ritrovare lo stesso sguardo che aveva lasciato. Fu quello a farla scoppiare a piangere disperatamente.

Con un passo Luigi annullò la distanza che lo separava da lei e la strinse contro il suo petto. Non avrebbe saputo dire quanto tempo la tenne fra le braccia mentre piangeva.

L'ora bluDove le storie prendono vita. Scoprilo ora