Capitolo 18

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Era freddo.

Era poggiata su qualcosa di morbido che odorava di naftalina.

La testa le girava come fosse sulla ruota panoramica, e sia ben chiaro che lei non era mai salita su uno di quei cosi, ma le sarebbe sempre piaciuto. Sedere su una cabina voltante, vedere il paesaggio dall'alto, lo zucchero filato che le appiccicava le dita. Lo sguardo della persona che l'amava concentrato solo su di lei, come se il paesaggio intorno nemmeno ci fosse. A volte anche a lei capitava di fare quei sogni, aspirare ad avere quel tipo di vita... poi il sole cocente e la pala pesante tra le mani, la terra nelle scarpe e un'estremità della gonna rigirata e infilata nella cintola per scoprire i polpacci la facevano desistere dal sognare ancora.

Quel giramento di testa però non era dovuto da un giro su una giostra. Era il dopo sbronza da magia.

Altea aprì piano gli occhi e una luce bianca si fece largo tra le sua ciglia. Si tirò su a sedere e massaggiandosi la testa con le mani la sue mente rievocò subito gli ultimi ricordi.

La spiaggia.

Matilde svenuta.

Elia.

Sollevò lo sguardo. Era in una cella. O per meglio dire, in una teca. Si guardò per un attimo intorno.

Due pareti erano fatte in roccia, altre due ‒ quella che affacciava sul corridoio e quella che condivideva con il carcerato accanto a lei ‒ erano trasparenti. Probabilmente vetro. La cella confinante era identica alla sua. Due pareti in roccia, due in vetro, un lettino, uguale a quello dove era seduta lei. Il suo ospite era Elia.

A specchio, davanti alle loro celle, ce n'erano altre due. Davanti alla sua si trovava Matilde, ancora distesa sul letto, gli occhi chiusi. La vedeva a malapena. Cross, le braccia incrociate sul petto, lo sguardo di odio, era posizionato davanti alla porta della sua cella e la guardava con sdegno.

Lo vedeva muoversi leggermente sul posto, ma non sentì lo strusciare dello stivale sul pavimento in roccia. C'era uno strano silenzio, come avesse perso l'udito. Si voltò verso Elia e lo vide all'estremità della parte di vetro della cella. Vedeva il suo petto alzarsi e abbassarsi velocemente, le mani che stringevano convulsamente il costume con il quale lo aveva visto in spiaggia, i denti digrignati. Stava soffrendo. Era arrabbiato. Non sapeva in quale percentuale l'una superasse l'altra. Gli andò incontro e si poggiò con le mani sul vetro. Elia si voltò a guardarla e la sua bocca pronunciò: «Argento». Lo capì dal labiale, perché la sua voce non le arrivò mai alle orecchie. Elia doveva aver visto la confusione dipinta sul suo viso, la preoccupazione, la paura. Batté il dorso della mano sul vetro e si toccò un orecchio.

Erano isolati. Non era lei che aveva perso l'udito. Erano le celle.

Altea si voltò sulla parete dietro la quale si trovava Cross, laddove sarebbe dovuta esserci una porta. Una sensazione di claustrofobia la pervase, ma si avvicinò ugualmente alla parete e guardò il cacciatore, i manici delle due katane che spuntavano da dietro la schiena.

Dietro di lui un movimento. Matilde che si svegliava.

«Che posto è questo?» gli chiese Altea, ma la risposta non arrivò. Cross la guardava come non fosse niente di più di una mosca catturata con un bicchiere. Niente di essenziale. Eppure una parte del suo sguardo, i muscoli tesi delle braccia, tradivano l'astio e il desiderio di fare quella che per lui doveva essere chiamata giustizia.

Nella cella si materializzò una bottiglia di acqua. Altea l'afferrò con avidità, così come i suoi compagni afferrarono la loro, e ne trangugiò avidamente una buona metà. Si pulì il dorso sulla mano e guardò Cross.

«Elia è innocente.» Non sapeva se poteva sentirla. «Abbiamo scoperto la verità. Voglio parlare con Falco.»

«Falco non è qui e tu non hai il diritto di parlare con nessuno.»

L'ora bluDove le storie prendono vita. Scoprilo ora