Capitolo 26

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Le fischiavano le orecchie, le vista era parzialmente oscurata. Tutto sembrava muoversi a rallentatore, i rumori erano attutiti, la polvere volava nell'aria facendola tossire e pezzi di cemento e legno erano sparsi per tutta la stanza. Qualcuno si era avvicinato a lei e le aveva afferrato un braccio, tirandola su con forza, ma la gamba le faceva male e non riusciva a poggiarvi completamente il peso.

«CORAGGIO! CORAGGIO!» le urlava qualcuno mentre con difficoltà provava a trascinarla verso la porta.

Delle ombre si muovevano nella stanza, ombre nere. Sembravano combattere e c'erano dei rumori, come... dei ringhi. Un'immagine oscurò la sua visuale. Un viso, incorniciato da qualcosa di dorato. Piano piano la vista le tornò a fuoco, e il fischio nelle sue orecchi si affievolì.

«Matilde.»

La sua amica non aveva tempo di sorride, né di mostrare la sua felicità nello scoprire che Altea era viva. Invece l'afferrò di nuovo per le braccia e con determinazione la tirò in piedi. «Dobbiamo andarcene da qui. Puoi camminare?»

Altea provò a posare il peso sulla gamba dalla quale colavano copiose gocce si sangue, anche se ormai ne era talmente cosparsa ovunque che quelle che appartenevano a lei si distinguevano soltanto perché erano più fresche e di un rosso brillante. Le faceva male, ma doveva andarsene quindi sì, poteva camminare.

Matilde l'afferrò per la mano e iniziò a correre verso la porta. Mentre si dirigevano fuori, Altea mise a fuoco la stanza, le ombre, e appena prima di svoltare l'angolo là dove una volta c'era la porta, riuscì a riconoscere Luigi che combatteva con alcuni uomini che Altea non sapeva minimamente da dove fosse usciti fuori.

Altea doveva stare attenta a schivare i vari pezzi di legno e argento della porta distrutta che erano volati a metri di distanza, rischiando di ferirle i piedi, mentre imboccavano una strano corridoio in pietra

«Dimmi che tutto questo sangue non è il tuo» la implorò Matilde mentre svoltavano l'angolo, ma Altea non fece a tempo a rispondere. Qualcosa volò sopra le loro teste. Un gancio destro assestato con estrema violenza. Le ragazze riuscirono a schivarlo in tempo grazie all'allenamento e probabilmente ai riflessi e al sesto senso. Indietreggiarono mettendosi in posizione di attacco, Altea pronta ad utilizzare le ultime forze rimaste per difendersi.

Un colpo d'arma da fuoco la fece sussultare. Poi un altro. I due uomini, probabilmente umani, caddero a terra senza fare in tempo a difendersi, presi alla sprovvista, così come Altea.

Matilde teneva impugnata la pistola con la mano destra mentre con la sinistra riafferrava la mano di Altea e ricominciava a correre.

«Avevamo detto che...»

«Avevamo detto tante cose Altea, ma qui si tratta di vita o di morte, e ti assicuro che se avessi una mitragliatrice la userei senza battere ciglio» la interruppe Matilde.

Salirono una scala. Quel posto sembrava come un grande palazzo interrato. Non c'erano finestre ma era elegantemente arredato, con carta da parati di lusso, anche se ormai vecchia e strappata, specchi con cornici dorante, tappeti infinitamente lunghi, talmente vecchi e logori da non riuscire a distinguerne quasi più i disegni.

«Come avete fatto a trovarmi?»

Matilde esitò.

Altea si fermò bruscamente e trattenne l'amica. «Altea, non c'è tempo. Dobbiamo andare!»

Ma Altea conosceva Matilde da anni e sapeva bene quando qualcosa la turbava. Qualcosa che non c'entrava niente con lei, o con la situazione.

«Matilde!» la chiamò Altea mentre lei continuava a provare a trascinarla via, evitando il suo sguardo. Ma Altea non si mosse e Matilde fu costretta a fermarsi e a guardarla. Non c'era solo preoccupazione nei suoi occhi, ma qualcosa di più.

L'ora bluDove le storie prendono vita. Scoprilo ora