1. Samuel

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8 aprile 1946

Eva constatò che il basso cancelletto di legno era socchiuso, lo spinse senza pensarci due volte ed entrò. La facciata aveva l'aspetto semplice delle case di campagna; a destra e a sinistra del piccolo sentiero di pietre ai suoi piedi c'erano vasi di coccio con fiori variopinti; nel giardino notò dei gerani e delle rose gialle ben curate, un cespuglio folto di odoroso rosmarino e altri gerani rossi e azzurri.

Sulla porta di legno non vi era nessuna indicazione riguardo la famiglia che vi abitasse.

- Perché sono qui? - pensò – È tutto così assurdo ... che cosa rappresentano questo biglietto e quest'indirizzo? Perché l'assassino di mio figlio ha voluto che venissi qui?

Per un attimo meditò di tornare indietro. Che cosa voleva da lei l'uomo che le aveva strappato la vita? Che cosa cercava ... Perdono? Indulgenza?

Bussò con decisione. Sentì del trambusto, attese dei lunghi istanti finché, poco prima che bussasse di nuovo, la porta si aprì.

Una donna giovane dai corti riccioli biondi, col volto stanco ma bello la fissò incuriosita. Indossava un ampio grembiale candido e sgualcito.

- La signora Calò? Valeria Calò? domandò immediatamente Eva prima che la padrona di casa aprisse bocca.

- Sì, sono io.

Le iridi azzurre della donna la scrutavano perplesse e curiose, ma prive di ostilità.

-Lei non mi conosce- disse- Sono Eva Diena. Sospirò angosciata. Come spiegare il motivo della sua presenza lì? Poi notò gli occhi dolci, appena cerchiati da occhiaie brune della giovane signora bionda che si erano sgranati a dismisura diventando capocchie di spillo.

- Eva Diena ... O mio Dio, voi! - gridò. -Gilberto vieni qui, presto!

Un uomo alto e robusto in canotta bianca affiancò la donna, le pose un braccio intorno alle spalle: il viso era gradevole, la barba di qualche giorno lo invecchiava. Gli occhi scuri si aggiunsero a quelli tondi della moglie nello scrutare la sconosciuta.

Eva confusa ripeté:

- Siete i signori Calò? Sono Eva Diena. Cerco Giuseppe, Giuseppe è qui?

La donna e l'uomo parevano commossi. Lei si voltò verso l'interno.

- Giuseppe! – gridò - Giuseppe, vieni, corri!

Un bambino snello e chiaro, apparve dietro alla padrona di casa, trafelato e confuso. Lei arretrò qualche passo e gli circondò le spalle col braccio per farlo avanzare. Lui indagò il volto della donna bionda per scoprire la ragione di quella chiamata impellente, poi ne seguì lo sguardo sulla sconosciuta che invadeva l'area luminosa della porta dischiusa. Nell'imbarazzo la sogguardò con lentezza, notò le scarpe marroni molto sbiadite col tacco basso e il pastrano da uomo che portava indosso, troppo abbondante. Poi si azzardò a incrociare gli occhi grondanti della pellegrina che non riusciva, per la tremenda sorpresa, a emettere suono.

Strillò:

- Mamma! - E s'infiltrò tra le braccia della povera Eva, le quali l'abbrancarono così fortemente che fu evidente l'ansia di non volerlo perdere una seconda volta, perché sarebbe stato, a suo terrore, per sempre.

- Benedetto sia il suo nome! ... Samuel! Oh Samuel! Tu sei vivo! Sei vivo!

I signori Calò apparivano sorridenti ed emozionati. La moglie stese la mano.

-Sono Valeria, signora Diena. Credo che lei abbia diritto ad una spiegazione. Si sfilò il grembiule e lo appese su un attaccapanni.

-Sì, sì- balbettò la povera Eva stordita e incredula e seguì, avvinghiata strettamente al suo bambino, la donna bionda che la guidava all'interno della casa. S'accomodò su un divano marrone a due posti accanto a Samuel che non le lasciava la mano. O forse era lei che lo teneva stretto perché non sparisse? Chi erano quelle due persone? E perché Samuel stava con loro? I due sposi si sedettero di fronte a lei su due seggiole affiancate. La signora Calò teneva le mani affusolate sulla gonna azzurra sbiadita e attorcigliava le dita a preghiera mentre spiegava:

- Quando il maggiore Jӓger venne alla nostra porta con un bambino ebreo e ci domandò se potevamo occuparci di lui, pensammo subito ad un tranello. Il cugino di Gilberto, mio marito, stava con i partigiani e qualche volta scendeva a trovarci e si nascondeva in casa. Avevamo anche una radio celata in cantina. Pensammo subito di essere stati individuati dalla Gestapo. Perciò obiettammo entrambi che non volevamo tenere un bambino ebreo con noi. Il maggiore ci assicurò che non avremmo avuto fastidi e che sarebbe stato per breve tempo, fino a quando non avesse trovato un'altra sistemazione per lui.

Valeria Calò sorrise con un'espressione gentile.

- Dovemmo accettare, ma credevamo ancora che fosse uno stratagemma per arrestarci e fucilarci per tradimento. Il maggiore ci fornì documenti falsi per Samuel che mostravano come fosse nostro figlio: Giuseppe Calò. Eravamo terrorizzati e timorosi di parlare davanti al piccolo, che egli riferisse i nostri discorsi e ci denunciasse, ma nonostante le nostre previsioni, non accadde nulla. Jӓger venne a trovare spesso il bambino, ci diede dei soldi, molti soldi; un giorno di dicembre avvisò che doveva trasferirsi al fronte e ci pregò di tenere Samuel con noi almeno fino al termine della guerra. Non fu difficile prometterlo, non avevamo figli e c'eravamo già affezionati al piccolo. Ci diede altri soldi ma rifiutammo.

Mentre la signora Calò faceva una pausa, Eva concitata scuoteva la testa e mormorava come tra sé: non è possibile, non è possibile. Io l'ho accusato, io l'ho fatto condannare a morte, non è possibile...

Gli occhi dei signori Calò la sbirciavano con tenera e silenziosa compassione.

-Vuole raccontarci qualcosa di lei?-suggerì Gilberto Calò. 

Eva lo fissò stupita.

-Come? Non sapete nulla? Samuel non vi ha detto...

-Poco-, confermò l'uomo. -Non abbiamo mai voluto interrogarlo. Abbiamo capito che sotto c'era un grande dolore. Samuel ci ha detto che il suo papà era morto e la sua mamma si chiamava Eva, Eva Diena. E che era salita sul treno dei tedeschi.

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GIUDITTA E OLOFERNEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora