Mentre l'auto con i due tedeschi passava accanto a noi gridando il nome mio e di mia madre, avevo subito riconosciuto il maggiore Jäger e il mio cuore aveva fatto un balzo. Perché era lì, perché cercava me e non solo me ma anche mia madre che non aveva mai conosciuto? La macchina si era fermata e i due tedeschi erano scesi e camminavano accanto alla nostra fila di deportate esauste che aspettavano il turno per entrare a fare "la doccia" di gas. Udii il maggiore parlare di interrogatorio e stringendo la mano di mia madre la costrinsi a guardarmi. Le sussurrai di non rispondere all'appello. Il suo sguardo era sorpreso e interrogativo, non capiva, ma io pensavo che se quell'uomo voleva interrogarci ci aspettavano torture. Allora meglio morire di gas. Girai il volto per non essere riconosciuta, ma forse col mio nuovo aspetto, non ci sarebbe riuscito. Avevo perso almeno tre chili e non avevo più i miei bei capelli lunghi. Il soldato continuava a strillare.
-Dina Camis! Cè Dina Camis tra voi?
-Dina Camis ... sono io Dina Camis.
-Ah, sporca ebrea, perché ti presenti solo ora? Sei sorda? Esci dalla fila! È lei, Maggiore?
-Non la conosco. Tu! Sei la madre di Giuditta?
-Sì, signore.
-Lei dov'è? Rispondi!
Dopo che mia madre aveva d'improvviso lasciato la mia mano, avevo cercato di strattonarla per la veste ma lei si era imposta ed era uscita dalla fila. A quel punto fui costretta a seguirla e anch'io uscii dalla fila a capo chino. Il cuore mi batteva così forte che temetti di morire d'infarto da un momento all'altro. Pazzo d'un cuore! Soffriva ancora nel ricordare il disprezzo con cui lui mi aveva guardato il giorno della mia colpa. Avrei ritrovato quello sguardo?
-Ti ho chiesto se sai dov'è. Rispondi! Dov'è? Che cosa stai guardando? Oh, mio Dio!
-Eccomi, sono qui ... maggiore Jäger.
-Sei viva! Damn! Perché non hai parlato prima? Non importa... salite in macchina, dietro, schnell!
Le sono grato, Helmuth. Riferisca al comandante che appena sistemate le due prigioniere nel furgone passerò a salutarlo.-Sì, Maggiore. Sono contento che abbia risolto il suo problema. Heil Hitler!
-Heil!
L'auto ci trasportò all'ingresso di Auschwitz I e per la prima volta scorsi la scritta in ferro che sormontava il cancello: Arbeit macht frei: il lavoro rende liberi. Che beffa crudele! C'era lì vicino un furgone e un ufficiale della Gestapo accanto che pareva aspettare proprio noi. Il suo viso mi parve familiare ma non lo riconobbi subito. Il maggiore con voce severa ci ordinò di scendere dall'auto e di salire sul furgone. Non capivo che cosa stava succedendo, né cosa Erich volesse da me, da noi. Rivolsi una breve preghiera al mio Messia. Mi vergognavo del mio stato, di come mi avevano ridotta il lavoro e gli stenti che mi avevano imposto.
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GIUDITTA E OLOFERNE
Ficción históricaGiuditta Naussbaum è una ragazza ebrea che lavora come cameriera sotto il falso nome di Giulia Sarti presso un amico di famiglia, Rocco Scalisi. Rocco la ospita nel caseggiato di sua proprietà e nasconde in un passaggio segreto i suoi genitori. Nell...