Capitolo 43

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Socchiusi gli occhi a fatica; la luce di quella piccola stanza era talmente forte ed insistente sul mio volto da portarmi a percepire una sensazione di bruciore che dalle pupille si faceva strada lungo tutte le palpebre.
Di fronte a me un uomo, nella penombra, con un sigaro in bocca ed un piccolo taccuino tra le mani. Quando alzai il capo per osservarmi distrattamente intorno, notai una seconda volta la signora che abitava in quella casa che avevamo tanto cercato io e Selene.
Selene. Dov'era andata? Non era presente nella stanza in cui mi trovavo; lo sapevo perché avevo ricontrollato più volte nella speranza che, magari, i miei occhi, talmente infastiditi da quella luce, avessero omesso dei particolari presenti in quell'ambiente. Portai le mani ai capelli a sistemarne qualche ciocca ribelle mentre i miei occhi si strizzarono nuovamente con forza. Quella signora, che dall'angolo nella penombra si era avvicinata fino a costeggiare il tavolo spoglio, mi osservò con sguardo preoccupato; gli occhi pieni di lacrime.

"Piccola mia, stai bene? Che ti hanno fatto?"

Non risposi a quelle domande, continuando ad imporre alla mia mente di ricordare cosa fosse accaduto poco prima, il perché fossi stata nuovamente abbandonata, lasciata con l'unica compagnia di un uomo taciturno ed una signora vagamente familiare.
Alzai il capo lentamente qualche minuto più tardi; l'uomo, un agente di polizia, a detta del distintivo che teneva riposto in bella vista sul tavolo, sospirò pesantemente, si massaggiò i folti baffi per poi alzarsi in piedi ed invitare la donna a raggiungerlo nuovamente all'angolo della stanza, parlando a bassa voce in modo da impedirmi di percepirne il discorso.

"Dov'è Selene?"

Ebbi il coraggio di chiedere, ricevendo in tutta risposta uno sguardo preoccupato. Il poliziotto si avvicinò nuovamente a me e, questa volta, mi sorrise; un vano tentativo di alleviare la tensione e calmare la mia mente ormai fin troppo agitata. Mi porse la mano come a volermi invitare a lasciare il confortante calore della sedia per seguirlo nell'ignoto; invito che, con mio grande stupore e disappunto, non faticai ad accettare.
Raggiungemmo la sala d'attesa della centrale e non potei fare a meno di sorprendermi nel vederla eccessivamente vuota. L'uomo sussurrò qualcosa d'inconmprensibile alla donna poco distante da me per poi girarsi nella mia direzione e lasciarmi un sorriso di circostanza mentre il suo braccio s'impegnava a tenere aperta la porta in vetro massiccio. Percepii un tenue calore invadere il palmo della mia mano e, quasi d'istinto, con il cuore colmo di speranza, mi girai in direzione di quella presenza, notando, però, che ogni mia aspettativa era stata spezzata dalla presenza della donna. Mi sorrise caldamente, strinse per qualche istante le mie dita e mi invitò a seguirla fuori dall'edificio.
Poco prima di avviarci verso la sua macchina, qualcosa invitò ogni fibra del mio essere a riporre nuovamente la mia attenzione all'interno di quelle quattro mura. Fu in quel momento che i miei occhi, prima talmente secchi ed aridi, s'inumidirono in un battito di ciglia, sgranati come se avessero appena visto un fantasma. Fu un attimo, un solo istante, ma il mio cuore sapeva di averla rivista, forse per l'ultima volta. La testa bassa, il volto coperto dai capelli morbidi, i polsi stretti insieme dietro la schiena da un paio di manette mentre due agenti si premurarono di scortarla nella stessa stanza dove ero stata io. Non mi vide, non ebbi nemmeno la possibilità di salutarla un'ultima volta. Cercai di liberarmi dalla presa della donna, ma fu tutto vano; le portiere dell'auto erano bloccate e non appena salimmo mise in moto con una tale premura da fare quasi paura. Continuai a guardare fuori dal finestrino quel dannato posto che mi aveva portato via l'unica sicurezza che avevo, condannandomi nuovamente ad una vita di mera solitudine, percependo in più il dolore della mancanza di quell'unico spiraglio di luce che, nonostante tutto, il mio cuore bramava come aria.

Trascorse qualche giorno da quella mattina; momenti d'incessante sofferenza nel quale non mi era stato concesso avere notizie di Selene. Passai quei giorni chiusa in una stanza tra i miei pensieri, senza mangiare, bere o parlare, rifiutandomi di accettare qualsiasi tipo di contatto umano. Non mi era stato spiegato niente, nessuno si era premurato di darmi spiegazioni sul perché di quell'inaspettata piega degli eventi. Le uniche due persone con cui la mia mente accettava di mettersi in contatto erano le mie amiche, le quali non perdevano mai tempo a riportare tutto alla badante e alle sue amiche.
Feci per inviare un messaggio, l'ennesimo della giornata, ad Ally quando sentii bussare alla porta. Non risposi, ma a nulla servì il mio silenzio poiché vidi la donna fare capolino dal blocco di legno bianco che separava la mia esistenza da quella del resto degli abitanti di quella casa. Mi girai di spalle, ma quel mio gesto non venne correttamente interpretato dalla signora, la quale continuò ad avanzare fino a raggiungere il bordo del letto sul quale ero sdraiata. Mi poggiò una mano delicata sulla spalla e sospirò pesantemente. Comprendendo che, con molta probabilità, era pronta a confessarmi qualche scomoda verità, le prestai la mia più completa attenzione, abbandonando il cellulare alla sua solitudine sul comodino posto al fianco del letto ed assumendo una posizione seduta.

"Vedi...come avrai già capito io sono tua madre."

La osservai con apatia in volto. Qualcosa dentro di me mi diceva di conoscere già quella donna, ma la mia memoria non sembrava intenzionata a voler collaborare. Sorrise amareggiata, abbassò il capo per qualche istante per poi tornare ad osservarmi con forte intensità.

"Mi hanno detto che non ricordi nulla, perciò credo sia giusto raccontarti cos'è successo."

Si passò una mano tra i capelli con fare nervoso per poi prendere dei respiri profondi. In quel momento la mia mente non poteva fare a meno di pensare a Selene, a dove fosse e a cosa le stessero facendo.

"Eri uscita per prendere delle cose che mancavano in casa e non sei più tornata. Eri stata rapita mentre andavi al supermercato; se solo non ti avessi chiesto di comprare quelle cose..."

Si bloccò all'istante, lo sguardo perso nel vuoto. Colsi l'occasione per portare avanti la parte di quel discorso che, in quel momento, più mi interessava.

"Dov'è Selene? E, soprattutto, chi è Selene?"

"Al momento è in centrale, credo. Lei...lei è tua sorella, anzi sorellastra. Quando ero molto giovane mi frequentavo con un ragazzo, uno di quei classici cattivi ragazzi dei film. La nostra storia è durata due anni, ci siamo divertiti. Poi ho scoperto di essere rimasta incinta. Inizialmente andava tutto bene, ma dopo la nascita del bambino, un maschietto, lui è scappato via e mi ha lasciata sola col bambino. Conobbi un altro ragazzo qualche tempo dopo con il quale sembrava andare bene, ma dopo un po' iniziò a minacciarmi di lasciarmi se non avessi abbandonato mio figlio. All'epoca ero molto giovane, stupida e senza soldi, così decisi di fare come da lui richiesto e lasciai il bambino in un orfanotrofio."

Rimasi senza parole nell'ascoltare la storia della donna che diceva di essere mia madre, mentre i suoi occhi si fecero lucidi ed una patina di lacrime si fece strada lungo tutta la superficie delle pupille.

"Ora quel bambino è cresciuto ed è diventato una bellissima donna. Solo...non avrei mai immaginato che sarebbe andata a finire così."

A quelle parole non dissi nulla; la vidi concedere ad alcune lacrime ribelli di rigarle le guance, poi tornò ad osservarmi con un sorriso in volto, mi accarezzò una guancia, si alzò e sparì dietro quella porta bianca che, ancora una volta, aveva impedito al mondo esterno di fondersi con la mia realtà. Rimasi immobile sul materasso a pensare alle parole della donna, rendendomi conto solo in quel momento che la persona con la quale ero stata costretta a stare, la persona che occupava gran parte delle mie giornate, la persona che tra alti e bassi era riuscita ad insinuarsi nel mio cuore e nella mia mente altri non era che mia sorella maggiore.

SaraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora