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— ESME —

Il giorno seguente, come prima cosa, aiutai Felipe ad alzarsi dal letto.
Probabilmente tutti quei farmaci e flebo a cui l'avevano sottoposto, non erano stati ancora smaltiti e ora aveva un forte dolore alla schiena se la sforzava troppo.

«Gracias, mi hija.»
Il mio cuore venne avvolto da un vento caldo.

Sorrisi dunque e l'accompagnai fino in cucina dove gli preparai la colazione. Un caffè amaro con un biscotto al cioccolato, il suo abbinamento preferito.

Lo osservai mentre mangiava, a tratti, pensando a ciò che avrei dovuto dirgli e per cui non trovavo la forza. Avevo tanta paura di ferirlo e anche se ultimamente sembrava star meglio, io non potevo rischiare che gli succedesse qualcosa a lavoro o comunque quand'era solo.

Mi schiarii la voce, pronta a comunicargli la notizia,, quando lui prese il marsupio. «Vado, ho una Trabant da finire» disse con emozione.

Lo lasciai andare, salutandolo con la mano e augurandomi che si divertisse con quel catorcio d'auto che aveva tra le mani. La Trabant era una macchina del 1964 e per quanto moderna per l'epoca, nel ventunesimo secondo non era il massimo anche se c'erano quelle tenute così bene da essere ancora piuttosto raccomandabili.

Ma a parte questo, nei suoi occhi c'era quella scintilla speciale che a me dedicava di rado. Una creda mi colpì il petto nel realizzarlo, ma ci passai sopra.

Mi preparai anch'io e una volta vestita, uscii di casa chiudendo a chiave. Notai che mio padre aveva preso la macchina e quindi fui costretta a prendere la metro – cosa che comunque non mi dispiaceva se non fosse per la quantità di persone che andavano avanti e indietro tra un treno e l'altro.

Mandai un veloce messaggio a May sperando che mi rispondesse il prima possibile. Avevo un urgente bisogno di uno dei suoi consigli.

Quando arrivai a lavoro, salutai Ramon e ci mettemmo subito a lavoro. Lui sulla locandina di una gara rievocativa nelle vicinanze mentre io con l'articolo su Riva che andava ancora molto male nonostante avessi raccolto qualche informazione.

Il fatto era che non riuscivo ad essere obiettiva. Ogni volta che scrivevo una riga mi costringevo a cancellarla perché troppo intima o facilmente fraintendibile.

Non scrivevo chissà cosa, ma pensare a lui mi riportava ai momenti passati da soli e oltre ad essere dannosi per la mia salute mentale, erano del tutto inadatti a un paragrafo da stampare sul giornale.

"Quegli occhi ti hanno intrappolata" suggerì la mia coscienza, a cui non volevo assolutamente dare retta.

Non era vero perché lui non poteva avermi ingannata. Io ero la maestra, non lui. E comunque, non mi poteva aver preso con solo qualche sguardo spezzato e vuoto.

Mi rimboccai le maniche e ripresi a lavorare, costringendomi a scrivere qualcosa di per lo meno decente che non mi facesse perdere il mio posto di lavoro e alla fine, ciò che venne fuori -anche se non era l'intero paragrafo- non parve nemmeno tante male.

Mi presi qualche istante per rileggerlo nell'insieme e corressi una o due righe per poi ritenermi soddisfatta e passare ad altro. Prima di mandare a Nuñez, andava aggiustato e arricchito un altro po'.

*

Timbrai il cartellino d'uscita e tornai a casa dove, ai piedi al palazzo, mi stava già aspettando la mia migliore amica.

La salutai con un sorriso e invitai ad entrare, guidandola fino all'appartamento. May si offrì di prepararmi il pranzo anche se ormai erano quasi le tre del pomeriggio e io nel frattempo andai a cambiarmi.

CRASH | Errore di PercorsoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora