AMSTERDAM pt3

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La lezione all'università finì cinque minuti prima del solito quel martedì e le giornate iniziavano ad allungarsi. Misi a posto il mio computer per poter uscire dall'aula e rintanarmi un po' in biblioteca per studiare. Quando varcai la soglia notai come tutti erano rinchiusi nel loro mondo, tutti presi dai loro libri, dai loro evidenziatori color pastello. Nessuno notò il mio sfilare nel corridoio centrale, tra i tavoli, tutti troppo impegnati a continuare a sottolineare, battere al computer, ascoltare musica chill con le AirPods.

Trovai un posto libero, infondo alla grande stanza e, cercando di fare meno rumore possibile, mi sistemai con calma, forse perché rallentando i movimenti, il rumore sarebbe stato meno fastidioso. Che poi, pensandoci, è una cosa molto stupida. Perché persiste nel tempo, quindi in realtà prolungo solo quel trascinare i quaderni fuori dallo zaino e scavare nell'astuccio per cercare la penna giusta – quella blu, ovviamente – immersa in quel nascondiglio. Come fa sempre a perdersi lì dentro, quando è l'unica penna che utilizzo in mezzo a quel mare di cancelleria inutile? Le penne sono come i cavi impolverati in un vecchio scatolone in cantina. Li lasci in un modo e li ritrovi in un altro, tutti aggrovigliati e incasinati e li devi separare da quel loro litigare e azzuffarsi.

Dopo aver aperto il libro davanti ai miei appunti, cercai a concentrarmi su quel passaggio che neanche a lezione avevo capito molto bene.

Il silenzio pesava in quell'ambiente, così tanto che anche solo il clic della penna sembrava un urlo fastidioso, anche solo un respiro era un fastidio.

Non amavo andare in biblioteca, ma tornare a casa solitamente significava non aprire minimamente lo zaino e lasciarlo all'ingresso, già pronto per il giorno dopo; quindi, mi obbligavo a restare qualche ora in più fuori solo per portare a termine un po' di studio.

Chiusi gli occhi solo per un attimo, come per immergermi in quel mio mondo fatto di numeri e lettere, lettere e numeri, formule e strutture che non possono mai essere interpretate.

Un telefono squillò con una vibrazione potente su un tavolo e tutti alzarono gli occhi dai loro quaderni per capire chi fosse ad urlare in quel modo. Ci misi qualche attimo a capire che il messaggio in arrivo fosse per me.

Mi dispiace tu abbia smesso di non rispettare le regole.

Tutta la concentrazione che avevo incanalato defluì, straripò per un messaggio. Un messaggio che non aveva nemmeno un mittente, ma non ne aveva bisogno perché, nonostante cercassi di non pensarci, tornava sempre nel mio cervello il suo corpo, il suo viso. La sigaretta poggiata in equilibrio tra le sue labbra. I suoi occhi schiusi dal piacere.

Era tutto ancora nitido nel mio cervello e quando la sera mi rigiravo nel letto faticavo a scacciare quei ricordi.

Vibrò di nuovo tra le mie mani e il ragazzo di fronte a me mi lanciò un'occhiataccia. Prima di leggere, tolsi la suoneria e la vibrazione.

Ti hanno guardato male tutti. Potevi toglierla la suoneria in biblioteca!

Che vuoi? E dove sei?

È ancora libero quel posto a casa tua, nel tuo letto?

Cioè... è da un mese che non ti fai vivo e ora vieni a chiedermi di venire a stare da me? Ma poi, come fai ad avere il mio numero?

Ho mollato il lavoro. E mi devi un appuntamento...

Ci devo pensare se ho voglia di concederti un appuntamento, vista com'è finita l'ultima volta...

Lo vedo che stai trattenendo un sorriso. Non sei bravo a mentire...

Smettila di spiarmi

OS'S COLLECTION SIMUELDove le storie prendono vita. Scoprilo ora