Alina - Verso la voragine

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Concentrarsi sui dettagli è la cosa più semplice da fare per me, anche se questo forse non è affatto il momento giusto.

«Nome e cognome, per favore».

La richiesta del poliziotto seduto di fronte a noi arriva placida, tra un sorso e l'altro di tè.

Osservo la tazza che l'uomo poggia su un plico di scartoffie riposto alla rinfusa sul banco accettazione. C'è molto disordine che odora di polvere attorno a noi. Il tubo al neon sopra le nostre teste emana una luce fredda che è impietosa nei confronti delle sue rughe, così come dei capelli bianchi che spuntano, vistosi, dalla sua chioma. Le dita massicce e pelose si spostano sulla tastiera del computer in modo troppo lento, quasi goffo. Il taglio di capelli mi ricorda quello di mio padre in una foto insieme davanti la mia prima candelina, quella che non avrei mai potuto spegnere senza il suo aiuto, ormai sedici anni fa. Mio padre. Devo ancora dirgli che non servirà venirmi a prendere all'aeroporto perché su quell'aereo di ritorno io non ho mai messo piede.

Non voglio fare i conti con questa sensazione, così i miei occhi tornano sulla tazza di tè: si è creato un alone beige sul foglio al di sotto e sopra la ceramica noto l'immagine della bandiera bianca e azzurra accompagnata dalla scritta a caratteri cubitali stile Windows 95: "Non sto urlando, sono solo scozzese".

«Alina Keahi Maleko» risponde qualcuno accanto a me.

È Zoe. Voce e aspetto non combaciano, vogliono in qualche modo punirmi e mi costringono a sbattere le palpebre più volte. È irriconoscibile: capelli arruffati sulla faccia, colorito sbiadito, occhi infossati, braccia incrociate contro il petto come a volersi scaldare da una sensazione di freddo che viene da dentro. Sembra molto più vecchia del poliziotto, anche se è un paradosso.

Sul volto dell'agente affiora per la prima volta un'espressione contrariata, forse nata dalla difficoltà del dover trascrivere il mio nome. Come per ripicca cerco di leggere la targhetta di metallo lasciata anch'essa a prendere polvere in mezzo ai fascicoli e alla fila di tazze sporche di tè e caffè. L'incisione riportata è "K.J. Anderson".

E va bene, hai vinto tu Anderson. Sono io quella con il nome più complicato.

«È l'altra sua figlia?» chiede l'uomo, sollevando lo sguardo verso lo schermo del computer e spingendo con un dito la montatura degli occhiali, che è scivolata un po' troppo sul naso a causa del capo chino sulla tastiera. Per un attimo osservo sul vetro delle lenti il riflesso del display e in me cresce la voglia di aggirare la scrivania e guardare lo schermo insieme a lui.

«No, è solo una sua amica. Sarebbe dovuta partire oggi ma poi... ecco ha perso l'aereo» si affretta a spiegare Zoe.

La sua voce spenta mi attira di nuovo, è un colpo alla pancia. La guardo di sottecchi, ho paura che se lo facessi troppo il suo dolore mi troverebbe impreparata. Lo sento che sta cercando di venire fuori, è successo anche prima nel tragitto in auto insieme. C'era silenzio miscelato a lacrime smorzate, una gigantesca voragine verso cui siamo dirette a velocità più o meno sostenuta e che so terminerà nel momento in cui ci faranno la fatidica domanda.

Quando l'avete vista l'ultima volta?

Non voglio pensare all'ultima conversazione con Nina, allora mi concentro sulla prima.

È stato a scuola, a Honolulu, tre anni fa.

Nina si era trasferita da poco. Non è stato lo sguardo perso che vagava per la classe alla ricerca del posto migliore a farmelo intuire ma il braccialetto con il fiore di frangipane. Un grande classico a cui nessun turista alle Hawaii può resistere. L'ho osservata per un po': seduta a un tavolo dietro di me, rovistava nel suo zaino alla ricerca di qualcosa con cui iniziare a trascrivere gli appunti di storia. Il sollievo che le ha illuminato il volto si è ben inciso nella mia memoria: è stato quando le ho allungato una penna che ha sollevato i suoi occhi nei miei. Ho sempre desiderato averli così grandi, così espressivi e profondi come i suoi. È stato lì forse che ho iniziato a odiare il banale e comune taglio a mandorla dei miei.

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