Alina - Piangere e arrendersi - 1/2

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Il suo cellulare è nella tasca della giacca e ora che Lucilla è spalmata su di me, lo sento vibrare.

Mi stacco da lei senza guardarla e una sensazione strana mi piomba addosso. Ho ancora le guance accaldate dal bacio che ci siamo date e che ha stravolto tutto il mio mondo.

Il mio primo vero bacio alla ragazza più intelligente e bella che abbia mai conosciuto. Mi sembra di aver smesso di respirare per un tempo interminabile  e ora che ho ricominciato, l'aria è buonissima. Forse perché ho ancora il suo sapore incredibile addosso.

Gli occhi di Lucilla si spostano sul display del telefono che ha appena recuperato e sembra un movimento sia veloce che interminabile.

Il mondo si è come fermato. Forse è sempre stato così bello essere in vita e io non l'ho mai saputo, non ci ho mai fatto caso. Ero così distratta da ansie inutili e pesanti, che mi opprimevano. Non riuscivano mai a zittirsi e facevano a gara per riempirmi la testa, per farmi perdere tempo.

«Mamma?» sussurra Lucilla, guardando in un punto indistinto della sala ormai semivuota.

Passano solo un paio di secondi che bastano a stravolgere il viso, ad allontanarla da me anni luce.

«Va bene, arrivo».

La guardo riporre il cellulare nella tasta della divisa scolastica e alzarsi di colpo. La sedia stride contro il pavimento.

«Tutto bene?» chiedo.

Perfino qualche studente ha alzato distratto il capo, attirato dal rumore della sedia.

La sensazione strana si acutizza, non è più solo un sospetto: sono sicura che sia qui dentro per mettermi in guardia. È come se mi urlasse addosso parole incomprensibili, perché Lucilla sembra in trance e il motivo è qualcosa di molto più grande di noi.

Qualcosa di terribile.

«Devo tornare a casa, adesso» dice mentre afferra lo zaino e si lancia verso l'uscita con lo sguardo ancora vacuo, indecifrabile.

«Lucilla, aspetta».

Spengo in fretta il computer e cerco di raggiungerla. È molto più veloce del previsto. Lotto contro la porta in legno della biblioteca e finalmente la vedo: corre di spalle e si fa sempre più piccola mentre attraversa il giardino rischiarato dalla debole luce dei lampioni.

Costringo le gambe a fare lo stesso e mi maledico per aver smesso di allenarmi. Sono lenta e goffa ma non mi fermo, per lei correrei fino a farmi sanguinare i piedi, fino a bruciare tutte le riserve. La sensazione strana adesso mi prende a pugni, vuole fermarmi.

Se la raggiungessi, scoprirei qualcosa di atroce.

Il mondo tornerebbe a girare attorno all'ansia e al doppio della velocità, cancellando le endorfine che il mio cervello invaghito di lei sta pompando nel mio sistema. Lotto contro questo istinto, anche se fa male spegnere tutta questa felicità. Voglio sapere davvero che cosa sta succedendo.

Voglio aiutarla.

Lucilla supera il cancello dell'accademia e raggiunge la fermata dell'autobus: è qui che io e Nina ci siamo sentite al telefono la prima volta dopo la sua partenza, io a Honolulu e lei alla Grand Chilton. Il ricordo è dolceamaro e sparisce nel momento in cui sono abbastanza vicina a Lucilla perché lei possa sentirmi.

«Si può sapere che ti prende?» le chiedo mentre è ancora di spalle e chiusa su sé stessa, come a volersi proteggere da qualcosa che la sta mangiando da dentro.

Le sfioro un braccio e Lucilla si ritrae di scatto.

«Mio padre sta per morire».

Riesce a dirmi solo questo, poi i singhiozzi l'afferrano per le spalle e se la trascinano via, in un posto che Lucilla non vuole farmi vedere. Un dolore che ha tessuto un conto alla rovescia marchiato sul cuore. Il tempo sta vincendo, l'ha sempre fatto e ora la sta aspettando al capolinea.

L'agitazione la fa di nuovo scattare sull'attenti. La guardo asciugarsi con rabbia le prime lacrime dell'aver realizzato che la morte di suo padre è vicina. Non è questo il momento di cedere, sembra dirsi. Ci sono ancora troppe cose a cui pensare e la valanga di ansia ci travolge.

«Quando arriva la prossima corsa?» mi chiede.

Le mani tornano tremanti sul telefono, che sblocca per richiamare la madre.

Mi volto alla ricerca del cartello che indica gli orari del bus e li controllo velocemente.

«Tra cinque minuti».

Lucilla cammina avanti e indietro ora, passandosi una mano tra i capelli che la fioca luce del lampione sopra di noi rende ancora più neri. Il telefono all'orecchio, gli occhi attoniti, riempiti di un'angoscia nuova.

«Ti prego rispondi, rispondi, rispondi».

La guardo accovacciarsi e coprirsi la testa con le mani. Raggiungo la stessa posizione.

«Parlami, dimmi di che cosa hai paura».

Quasi non riconosco la mia voce mentre avanzo questa richiesta così timida e minuscola, che se ne sta ferma e inerme davanti uno tsunami violento in procinto di sommergerci.

«Mia madre non deve chiamare Leonard, non deve dirgli che cosa sta succedendo ma so che lo farà» afferma, la voce distorta dal dolore che ha cancellato ogni traccia della Lucilla che conosco, della ragazza che ho baciato solo qualche minuto fa.

«Ho paura che mio fratello possa perdere la testa e attivare il rituale per cercare di riportare nostro padre indietro nel tempo mentre è ancora in vita» aggiunge poi.

«Quello che anche Eric e Gyles stanno preparando?».

La ragazza annuisce.

«Anche Evie, Nina Elliot e Julian sarebbero in pericolo se li costringesse in qualche modo a partecipare. L'instabilità così sarà al suo punto massimo e rischieranno di restare intrappolati dentro Onis, non abbiamo più tempo».

Lucilla spinge la fronte contro le gambe. È una bambina adesso, lasciata troppe volte da sola ad affrontare il demone cresciuto dentro suo fratello, il tumore che si è esteso nella sua anima e che l'ha convinto a sfruttare un potere tossico.

La stringo forte e lei si scioglie sotto il mio abbraccio.

«Ce la faremo, arriveremo prima noi e in qualche modo cercheremo di fermarlo» la rassicuro.

La paura striscia inesorabile. Il ricordo di quell'esplosione al Samhain di ottobre è ancora vivo dentro di me. Lei non ha la forza di rispondere ma le lacrime sono tornate e forse questa volta le lascerà scorrere. Lente e pesanti, si fanno strada sulla versione di sé stessa che ha immaginato dalla diagnosi in poi e di cui ha sempre avuto paura: la ragazza che deve percorrere il resto della sua esistenza a fari spenti, senza suo padre.

Nel buio dell'addio muto, tra i soli lamenti freddi dei macchinari che non bastano più a mantenerlo in vita. 

 

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