Lucilla - Il piano - 1/2

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La villa estiva della famiglia Black è un blocco di colonne e vetrate che si staglia nel mezzo del bosco, su una piccola collina. La strada per arrivarci è piena di crateri, con i segnali stradali piegati in una posizione sbilenca. Però l'asfalto è decisamente più comodo del fango: peccato averla percorsa solo per poco più di cinque minuti.

Il vetro è lasciato all'incuria da così tanto tempo che è diventato opaco e l'oscurità all'interno della casa è un urlo di straziante solitudine.

La intravedevo spesso nelle passeggiate con papà, è sempre stata disabitata da quando ne ho memoria.

Perché Elliot ci ha condotti qui? Forse pensa che questo sia un rifugio sicuro, che qui nessuno possa raggiungerci.

La vegetazione è cresciuta rigogliosa attorno all'edificio, proteggendolo. Piego la testa di lato e l'osservo per un po': la facciata è ricoperta per metà da quel tipo di edera rampicante che in autunno sembra prendere fuoco a causa del bordeaux di cui si tingono le foglie.

Amo questa stagione, anche se non sopporto il freddo umido, quello che si insinua nelle ossa e sembra che le possa corrodere ogni giorno sempre di più e lasciarti in primavera senza un briciolo di forza.

«Dovremmo bussare?» chiede Alina con voce cauta.

È la prima che si spinge verso le scale di pietra e muschio ma poi il braccio di Julian le impedisce di proseguire.

«Aspetta, non lo vedi anche tu?» la sua voce arriva come una specie di rimprovero e la ragazza serra le labbra in una linea dura.

Dall'altra parte del vetro galleggia la faccia di Elliot. Il volto bianchissimo è illuminato dalla tremolante fiamma di una candela. Sembra che risalga in superficie dopo aver fluttuato nelle acque di uno stagno torbido.

L'antico legno della porta principale stride: il ragazzo lo scuote parecchio per poter liberare un varco e lasciarci entrare. Il vetro borbotta stanco. Non appena la porta si apre Alina sale in fretta le scale e si precipita all'interno. È così frettolosa che Elliot è costretto a farsi da parte per non essere travolto. Lo spostamento dell'aria quasi spegne la candela, facendoli precipitare nel buio.

Compio un primo passo verso le scale e mi volto verso Julian Moss, guardandolo incuriosita dalla sua espressione indecifrabile. Sembra combattuto.

«Che fai, non entri?».

Sbatte le palpebre più volte e mi guarda come se lo avessi scosso da un pensiero ben più profondo. Forse sta cercando di usare il suo potere su Elliot per scoprire le sue vere intenzioni.

«Andiamo» mormora sicuro di sé, anche se poi è l'ultimo di noi tre a raggiungere le scale.

Gli occhi ci mettono un po' ad adattarsi all'oscurità e l'odore di cose umide e dimenticate s'insinua ovunque. Sembra di essere sottoterra, in una grotta scavata dal mare, un antro di solitudine estrema. Il rumore della pioggia è sparito e il silenzio mi disorienta.

Qualche dettaglio slavato s'imbuca nelle pieghe dei miei pensieri. C'è un mosaico all'entrata, le parole in latino scorrono placide nella mia mente. Difficile est longum subito deponere amorem.

«Alla mia famiglia piaceva Catullo» spiega secco Elliot, inoltrandosi verso il corridoio alla fine della saletta d'ingresso. Ai quattro angoli della stanza ci sono delle statue bianche, sembrano delle dee greche.

I passi di Elliot rimbombano nel vuoto attorno a noi e la luce della candela ora guida i nostri passi.

«Che cosa significa?» chiede Alina quando siamo ormai nel corridoio. Sul lato sinistro si apre una scala bianchissima che porta al piano superiore. Il soffitto è alto e l'eco dei nostri passi rimbomba ovunque. Elliot però è diretto alla fine del corridoio, oltre un'altra stanza preceduta da un monumentale portone in legno e io aumento il passo per raggiungerlo.

«È difficile guarire di colpo da un amore durato a lungo».

La voce di Julian, sempre così ostinata e cupa, sembra addolcirsi un po' adesso che la traduzione del mosaico viene pronunciata in inglese. Tutti e tre superiamo la porta e una luce più forte ci accoglie insieme a un tepore gradevole.

Siamo in quello che una volta era il salotto, si intuisce dalla disposizione dei mobili attorno al camino e dalla vetrata che si affaccia sul giardino interno della villa, ormai immerso nella penombra. Un fuoco vivo brucia nel focolare in marmo verde e io mi avvicino attratta dalla fiamma. La mia seconda natura è lì e mi saluta. Mi avvicino così tanto che sento gli occhi bruciare e allungo una mano sulla fiamma. Stringo le palpebre e sento il potere tornare a calmarmi. Adesso è raggiante e gioca a farmi il solletico danzando nello spazio che divide le dita. L'acqua è sempre legata ai ricordi, a una malinconica dolcezza. Il fuoco è invece il futuro: mi regala energia, voglia di affrontare le sfide. Ho bisogno di trovare l'equilibrio tra le due nature. Ravvivo la fiamma e mi guardo intorno: la stanza è piena di un mobilio antico coperto da lenzuola bianche. Sembra di guardare un arcipelago di isole deserte in un mare di notte.

«Allora è qui che organizzeremo il piano?» chiedo.

Alina, anche lei attratta dal calore e accovacciata con entrambe le mani vicino il fuoco ne solleva una davanti la mia faccia per interrompermi.

«Prima c'è qualcosa che vorrei fare con voi».

Rovista nella sua borsa a tracolla su cui l'ombrello di Julian non ha avuto nessuna protezione, rendendo la stoffa beige più scura di diverse tonalità e tira fuori una piccola scatola di legno con una fessura stretta.

Julian alza gli occhi al cielo, mentre Elliot piega la testa di lato incuriosito dall'oggetto.

«Promettetemi di non ridere» mormora la ragazza, il viso strategicamente nascosto dietro la cascata di ricci che sono scivolati in avanti a causa della posizione che ha adottato per scaldarsi. L'uniforme dell'Accademia non è proprio l'indumento migliore per difendersi dal freddo qui.

«Lo sto già facendo» ribatte Julian, anche se sulla sua faccia è comparso più un ghigno sarcastico.

Alina sbuffa.

«Come non detto».

Sta per scaraventare la scatolina nel fondo della borsa ma io interrompo il gesto sfiorandole un braccio. Lei solleva gli occhi nei miei, un guizzo di speranza li rende più delicati. Sono scuri e bellissimi, come il velluto.

«Sentiamo che cosa hai in mente».

«Beh, ecco... è stata più un'idea di mio padre» dice, facendo una pausa per tornare in piedi e continuare a fissare un punto indefinito nel camino.

«Mi ha detto che così potremo elaborare meglio tutta questa situazione. Ognuno di noi potrebbe scrivere un messaggio indirizzato a Nina, anche anonimo, non importa. Poi quando tornerà romperemo la scatolina e lei potrà leggerli».

Alina parla velocemente, sembra vergognarsi della soluzione che il padre le ha suggerito.

«Ci sto» mormora Elliot.

Lo guardo sorpresa: il ragazzo è dietro di noi e ha lasciato la candela su un vecchio tavolo in legno, l'unico mobile a essere in parte scoperto dal lenzuolo.

«È un'idea bellissima, cerco carta e penna e poi iniziamo» le dico con un sorriso.

Nessuno prova a ribattere con l'alternativa del suo non ritorno. Tuttavia questo pensiero aleggia pesante nell'aria e mi fa tremare il petto.

Alina ricambia il sorriso, le fiamme illuminano il suo volto stanco. 

Un fuoco vivo, così bello e tremendo, brucia dentro questa ragazza.

Mi piace starlo a guardare. 

 

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