Capitolo 19

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Non parliamo per tutto il viaggio in macchina, quello che è successo nel mio salotto ha rovinato qualsiasi atmosfera serena che si era creata tra di noi. Il modo con cui mi ha scostato i capelli, come ha percorso tutta la mia schiena con le dita hanno reso la situazione veramente... magica. Si potrebbe dire erotica o piccante, ma è stato molto di più: la posizione in cui ci siamo trovati quando mi sono rigirata, la sua testa che si è chinata verso di me, le nostre labbra quasi a contatto, hanno reso l'aria intorno a noi intrisa di magia. C'erano anche il desiderio e la passione, ma la magia tra di noi era la cosa più importante, come se avessimo bisogno solo di quella magia per sopravvivere. Mentre penso a prima arriviamo in un parcheggio vuoto. Non so dove siamo perché non ho fatto attenzione alla strada. Daniel parcheggia e spegne la macchina. Non esce, ma sta zitto; vorrei che parlasse, vorrei che dicesse qualcosa, ma dato che rimane in silenzio con lo sguardo sul volante decido che non reggo più la tensione.

<<Hai intenzione di scendere da questa macchina o il posto era un parcheggio vuoto?>> sbotto acida. Daniel ha, per un momento, un'espressione stupita, come se non si aspettasse un mio intervento, ma poi la sua espressione muta in uno sguardo arrabbiato.

<<Puoi anche scendere prima te dato che ci metterai dieci minuti>> mi dice alzando la voce. Adesso sono io quella stupita; vorrei ribattere, ma non mi vengono le parole, così apro la portiera e provo ad uscire. Non è facile, infatti quando inizio ad alzarmi gemo di dolore, ma non chiedo aiuto. Al secondo tentativo che faccio per trovare la posizione migliore per il ginocchio, sento la portiera di Daniel sbattere e chiudersi. Se n'è andato, penso, ma dopo pochi istanti sento che mi mette le mani sui fianchi per tirarmi su di peso ed aiutarmi. Con un gesto istintivo allontano bruscamente le sue mani da me e, gemendo straziata dal dolore, mi alzo da sola.

<<Ce la posso fare da sola, grazie>> dico ironica, poi chiudo la porta a mi allontano da lui zoppicando.

<<Fermati!>> mi urla da lontano <<Stai andando nella direzione sbagliata. Aspetta, ti do una mano>> dice infine calmo. Mi giro e comincio a camminare nella direzione opposta mentre Daniel mi raggiunge velocemente per sorreggermi.

<<Non mi serve il tuo aiuto, non sono invalida!>> gli urlo contro.

<<Smettila di fare la bambina e fatti aiutare>> risponde con un tono calmo e contenuto, vorrei che urlasse perché quando rimane così pacato non so mai come rispondere.

<<Non mi serve il tuo aiuto, non sono invalida!>> ripeto scocciata, ma non urlo più, non ci riesco se mi risponde sempre parlando civilmente.

<<Non ti ha fatto così dispiacere il mio aiuto a casa tua>> ribatte con fare annoiato.

<<Cosa?>> urlo incredula <<Va bene, non mi è servito il tuo aiuto>> Daniel mi guarda confuso, ma poi mi abbasso e slaccio il fiocco alle scarpe e infilo la mano della clavicola sana dietro la schiena, sotto il maglione, slacciandomi il reggiseno: è molto più facile slacciarli. Infine mi volto a guardarlo dritto in faccia e continuo <<Sei contento? Adesso è come se non ti avessi mai chiesto nulla, ti senti meglio adesso? Vogliamo andare?>> non urlo più, ma non riesco ad essere pacata come lui.

<<Non intendevo questo>> borbotta a bassa voce, anche se riesco lo stesso a sentirlo, ma poi mi supera e si dirige verso una porta lontana aspettandomi quando ci arriva. Quando arrivo mi ritrovo in un grande salone con il soffitto a cupola, davanti a noi ci sono diverse file poltrone vellutate blu. So dove siamo,mi ci ha portato una volta mio padre quando ero piccola: un planetario. Daniel si allontana da me e lo vedo dirigersi verso un tavolo con pulsanti e leve: ne aziona qualcuna e pigia dei bottoni finché non ci ritroviamo al buio, illuminati dalle galassie. Però non sto guardando lo schermo intorno a me, ma sto cercando nello schienale di una poltrona in terza fila un'incisione: il giorno che mi ci ha portata mio padre abbiamo inciso le nostre iniziali nella poltrona davanti a me. Quando la trovo Daniel è all'inizio della fila che mi guarda confuso.

<<Papà...>> dico in un sussurro con le lacrime agli occhi.

<<Cosa?>> chiede Daniel avvicinandosi. Non ce la faccio a stare qua, mi metto una mano sulla bocca per trattenere i singhiozzi e mi allontano "correndo", per quanto io sia in grado di correre adesso. Daniel mi arriva alle spalle velocemente e mi chiama, non mi giro, però mi fermo.

<<Cosa succede?>> chiede preoccupato, non rispondo <<Katherina...>>

<<Mio padre>> ripeto in un singhiozzo <<Mio padre mi ci ho portata da bambina. Non posso, te l'ho detto che non avremmo mai dovuto fare fisica>> dico girandomi. Ho le guance rigate di lacrime, ma l'ultima frase l'ho detta con rabbia.

<<Lo so, ma devo rispettare il programma, lo sai anche tu che non posso farci niente: sono gli accordi con il preside>> dice mortificato abbassando lo sguardo.

<<Ma certo, il programma, il preside l'ha imposto>> urlo infuriata mentre continuano a scendermi le lacrime dagli occhi. Pensavo che la cicatrice della perdita di mio padre si fosse rimarginata, non è così.

<<Non sono io che decido cosa fare a queste lezioni, io posso solo decidere come spiegarti le cose>> continua scusandosi.

<<Guardami>> sto gridando <<Guardami negli occhi>> Daniel alza la testa e sostiene il mio sguardo, ma mentre il mio è pieno di odio, il suo è quasi impaurito dalla mia reazione. <<Le macchine devono seguire i programmi>> continuo <<Tu non sei una macchina, tu puoi scegliere cosa fare e ti avevo chiesto di evitare fisica! Qualunque materia, ho seguito tutte le lezioni, sono venuta a fare beneficenza, ma ti avevo chiesto una cosa!>> Sono talmente arrabbiata e disperata che la mia frase suona senza senso. Non facevo qualcosa che mi ricordava mio padre da anni, e adesso, vedendo le nostre iniziali, non ho retto.

<<Io...>> dice in un sussurro Daniel.

<<Tu non sei una macchina, tu puoi fare quello che vuoi. Lascia stare le regole...>> vengo interrotta. Vengo interrotta dalle sue labbra sulle mie. Mentre stavo dicendo l'ultima frase si è avvicinato a me quasi violentemente prendendomi il viso tra le mani con sicurezza. Resto paralizzata dal gesto. Le sue labbra sono morbide e premono con una forza disperata sulle mie. Non ricambio il bacio perché sono rimasta scioccata, ma chiudo gli occhi. Dopo alcuni secondi Daniel si allontana da me e barcolla indietro. Apro gli occhi quando sento il freddo provocato dalla sua distanza.

<<Scusami...> farfuglia <<Io... ehm, non so perché l'ho fatto, è che ti ho vista così... e poi mi hai urlato contro e...>> si interrompe abbassando lo sguardo.

<<Sei un codardo>> le parole mi escono dalla bocca come veleno e Daniel alza lo sguardo confuso <<Sei così preso dall'essere perfetto che non sai più neanche cosa vuoi>> le parole mi escono come sputi e mentre parlo mi avvicino a lui <<Baciami!>> gli urlo contro facendolo sussultare <<Baciami>> continuo riprendendo a piangere per la frustrazione <<Se vuoi farlo, allora baciami e non essere codardo!>> a questo punto Daniel mi prende con decisione per la vita e mi strattona verso di lui; io metto il braccio sano intorno al suo collo mentre lui preme di nuovo le labbra sulle mie. Il bacio è disperato, pieno di desiderio. Questa volta, più preparata, ricambio il bacio e le nostre bocche sembrano fatte in modo da combaciare perfettamente. Daniel mi strige più forte contro di sé, togliendomi il respiro, ma non mi lamento perché mi accorgo di non aver bisogno di aria per respirare, mi basta questo bacio.

Ti odio, ma ti amoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora