Non pronuncia una parola, si limita ad aprire la portiera della macchina, invitandomi con la mano a entrare. Non indugio neppure un secondo e, una volta salita, Gabriel richiude lo sportello, fa il giro dell'auto ed entra dal lato passeggero.
Questa è la mia macchina, la mia macchina. Sarebbe opportuno che tu mi chiedessi il permesso prima di entrare, vorrei urlare, ma una forza sconosciuta mi impone di tacere.
«Metti in moto.»
«Scusa, dove vorresti andare?» chiedo contrariata.
«Da nessuna parte. Però se metti in moto tra qualche minuto la macchina smetterà di essere un igloo.»
Faccio come dice. Subito dopo mi ritrovo ad aprire la bocca con l'intenzione di confidarmi, di far cadere quel muro invisibile che mi impone freddezza, perché la mia freddezza non è altro che paura, la terribile paura di soffrire ancora, di essere manipolata ancora una volta. Dire le cose che penso in maniera chiara potrà solo giovarmi.
«Voglio essere sincera con te. Io non ti odio più, Gabriel. Ma credimi, c'è stato un momento nella mia vita in cui ti ho odiato come mai nessuno al mondo, perché credo di averti amato come mai nessuno al mondo. Erano altri tempi, io ero diversa e ho dovuto lottare con tutte le mie forze per risalire dalla melma nella quale mi avevi fatto sprofondare. Io non voglio avere più nulla a che fare con te, e tutti questi tuoi tentativi di riappacificazione sono ridicoli.»
Spero di averlo ferito. Spero di aver distrutto quella parte del suo ego che, cinque anni fa, si gonfiava a dismisura ogni volta che gli dimostravo quanto fossi succube del suo amore. Spero che la sua reazione sia quella di spalancare lo sportello della mia auto e andarsene. Lontano da me. Lontano dalla mia vita che, senza di lui, ha riacquistato un senso logico.
Rimane composto, con le mani conserte sulle gambe, gli occhi incollati nei miei e un ciuffo di capelli che gli cade scompostamente sulla fronte. Contemplo le sue labbra e i suoi lineamenti, deliziandomi delle fossette che si disegnano ai lati delle guance ora che sta accennando un sorriso. Gira il busto su un fianco e apre le braccia dicendomi: «Avanti, picchiami. Non opporrò resistenza.»
«Piantala. Sei ridicolo.»
Addolcisce lo sguardo e lascia cadere le braccia in basso. «C'è stato un momento, quando la nostra storia era finita, in cui non ho resistito all'impulso di chiamarti. Avevi il telefono spento, Giù. E ora ringrazio la provvidenza per questo, perché se tu mi avessi risposto avrei ricominciato a tormentarti.»
E io la ricordo nitidamente quella telefonata.
«Ti richiamai, qualche ora dopo ma tu non risposi. Ti richiamai una seconda volta e sentii la tua voce e poi quella di Nicole» mormoro.
Adesso sì, adesso vorrei picchiarlo e tirare fuori tutta quella rabbia repressa per mesi interi, per anni.
«Sei felice, ora?»
Cos'è una provocazione?
«Sì, sono felice» rispondo sicura.
Allunga di nuovo il dito sulla ruga in mezzo alla fronte, provando a distenderla. «Allora rilassati, altrimenti rischi di non essere credibile.»
«Posso schiaffeggiarti? La tua presunzione è insopportabile.»
«Accomodati pure...»
«Smettila di provocarmi!» urlo.
A questo punto credo che l'ira mi stia accecando e non riesco più a trattenermi. Gli mollo una sberla con tutta la forza che ho. La guancia di Gabriel si arrossa all'istante e io provo uno stato di benessere indescrivibile.
Restiamo a fissarci per minuti che percepisco come interminabili ore, senza proferire parola, nella penombra della mia auto, con lo schiamazzo dei ragazzi usciti dal Paz in sottofondo.
Posso sentire il cuore contrarsi più del dovuto, come se stessi correndo e il mio corpo non riuscisse a compensare lo sforzo. Posso sentire nitidamente il profumo di Gabriel, sa di dopobarba misto all'odore di pelle. L'inconfondibile odore della sua pelle.
Lui massaggia con la mano la guancia e le mie labbra pronunciano sommessamente la parola «scusami.»
«Puoi farlo ancora, se vuoi. Puoi continuare finché non ti sentirai meglio.»
«Mi sento già meglio. Grazie.»
Questa conversazione, tutto d'un tratto, diventa irragionevole.
«Ora che entrambi ci siamo sfogati posso andare. Di solito passo la pausa pranzo nella caffetteria universitaria, quella dove ci vedevamo sempre, un tempo. Se dovessi avere voglia di fare due chiacchiere sai dove trovarmi, almeno finché non tornerò a Roma. Buonanotte, Giù.» Inclina il busto verso di me e mi bacia la guancia, poi apre lo sportello e se ne va in direzione della sua automobile.
Il rancore è un sentimento subdolo e, a volte, un gesto violento è in grado di consumarlo fino a farlo scomparire. Quello schiaffo non è servito a Gabriel per redimere le sue colpe, ma è servito a me per liberarmi di tutta la rabbia covata e soffocata nel corso del tempo. Soprattutto, però, quello schiaffo mi ha dimostrato quanto sia stata bugiarda nell'aver convinto me stessa di non odiarlo più. Almeno fino a pochi minuti fa.
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L'attesa
RomanceTerzo romanzo della serie -Il paradigma dell'amore- Sono passati quattro anni, Giuditta è una specializzanda nella facoltà di genetica medica ora. Trascorre le sue giornate divisa tra il laboratorio, i turni ospedalieri e la convivenza con F...