LA FIDUCIA SI GUADAGNA GOCCIA A GOCCIA, MA SI PERDE A LITRI (parte seconda)

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Lunedì tre aprile, quattro giorni esatti dal mio compleanno e sedici dalla partenza di Flavio. Sedici giorni. Non sono molti, se non fosse per i milletrecentocinque chilometri, se non fosse per la serenità di Flavio contrapposta alla mia palese sofferenza, se non fosse per il fatto di sentirci davvero poco, se non fosse per la presenza delle ricercatrici-cheerleader− e la mia folle fantasia che me le fa immaginare in imbarazzanti ménage lavorativi −, se non fosse per l'incertezza del suo ritorno, se non fosse per tutte queste cose, forse, sedici giorni non sarebbero poi molti.

«Giuditta, vai via?» la voce dell'infermiere caporeparto mi strappa con violenza dalle mie tanto creative quanto malate fantasie sul tema: Flavio a Londra.

«Sì. Ho terminato il turno, oggi faccio orario ridotto, sai per la tesi. Ho chiesto qualche ora di permesso in più.»

«Va' a studiare allora!» Mi saluta con la mano mentre rientra in ambulatorio.

La galleria del blocco nord è invasa dai raggi solari e l'assenza di aria condizionata crea una spiacevole cappa di calore.

«Giù, aspettami.»

Quella voce. Potrei riconoscerla anche immersa nel coro della tifoseria di uno stadio. Quando giro la testa mi ritrovo Gabriel che cammina verso di me.

«Che cosa ci fai qui?»

Prova ad allungare la mano sul mio braccio, forse per fermarmi, ma io mi ritraggo prontamente e tiro dritto.

«Mi spieghi che cos'è tutto questo improvviso astio?»

Non so che faccia abbia fatto perché mi sto imponendo di non guardarlo, ma sono certa che il suo viso stia cercando di apparire sapientemente disorientato dalla mia improvvisa riluttanza verso di lui. Come se il mio atteggiamento fosse una cosa strana e, al contrario, la sua presenza all'uscita di questo ospedale − alias il mio posto di lavoro − rientri in un comportamento da considerare del tutto legittimo.

Gabriel, e questa sua condotta molto più vicina a un amante che a un marito premuroso e preoccupato per le sorti mentali della sua adorabile Bambola rotta, mi sta creando confusione, mi sta mettendo in una posizione non solo scomoda ma anche piuttosto rischiosa.

«Mi stai facendo le poste, Gabriel?»

«No. Non mi permetterei mai se fossi certo di darti fastidio. Ho chiesto informazioni in accettazione per sapere se fossi in ospedale.»

Mi blocco a pochi metri dall'uscita. «Cosa avresti fatto, scusa?»

Gabriel è al mio fianco ora, mi volto per guardarlo e lo sorprendo con la solita aria da cane bastonato. Atteggiamento tipico di lui. Davvero tipico. Sta sfoggiando quello sguardo da cucciolo smarrito per impietosirmi, lo faceva sempre anche cinque anni fa quando aveva bisogno di provocare in me tutta una serie di pericolosi sensi di colpa.

«Mi stai dando fastidio, Gabriel.»

Non so quanto sia vero e quanto no, ma non importa, l'unica cosa che desidero è che lui non insista a flirtare con me.

Oltrepasso la porta a vetri della galleria ed esco all'esterno.

«Mi dai cinque minuti? Solo cinque minuti della tua vita per parlare.»

«No.»

Proseguo per la mia strada facendo finta che lui non mi stia dietro come un segugio, poi la sua presa sul mio braccio arresta la mia marcia. Lo sguardo truce che ho disegnato in viso non sortisce alcun effetto su di lui.

«Non ti credo, Giù. Smettila di recitare.»

Con l'unica mano libera afferro il suo braccio e trascino Gabriel in un'ala del cortile nascosta da eventuali sguardi indiscreti. In quello stretto rettangolo di strada, che divide due dipartimenti dell'ospedale attigui, si sentono i rumori delle unità esterne degli impianti di raffreddamento e null'altro. Ora siamo soli, io e lui, chiusi in un imbarazzante silenzio.

L'attesaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora