CAPITOLO 64: UNA PROMESSA IMPORTANTE

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Il cellulare squillava a vuoto.

Avevano visto la sua macchina almeno un'ora fa, ma di lui nessuna traccia.

Bebe, preoccupata, si avviò di corsa verso casa.

Lo trovò seduto sul divano, che fissava il vuoto, assente.

Aveva gli occhi rossi di pianto, era sconvolto.

Bebe gli prese la mano.

Lui la seguì, docile.

Lo vestì, con qualche difficoltà.

"Dai, amore, aiutami..."

Zanna si chiuse la cerniera.

Lo portò per mano giù per le scale.

Prese la sua tavola, la appoggiò al muro, poi rientrò in garage a prendere quella di lui.

"Tieni, non ce la faccio a portarle entrambe."

Zanna prese la tavola sottobraccio, inespressivo.

Bebe provava una pena profonda per lui.

Non sapeva cos'avesse, ma sapeva che sulla tavola, come lei e tanti altri, trovava le risposte.

Avendo la mano occupata dalla tavola, lo spintonò a spallate e lo portò in pista.

In seggiovia vide le lacrime rigargli il volto.

Piangeva in silenzio.

Lei gli accarezzò la testa.

"Cosa preferisci, amore? Salomon o Due?"

Zanna non rispose.

"Ok, Salomon che è la tua preferita. Vieni!"

Zanna si allacciò la tavola distratto e la seguì, lento.

Andare sulla tavola era naturale.

Avrebbe potuto farlo legato e bendato.

Non gli serviva la testa.

Era come un gabbiano che non pensa a come si vola mentre plana sul mare infinito.

Pian piano la montagna, la neve e il vento, entrarono in lui, donandogli una briciola di serenità.

Ma fu solo una lamina messa male e la successiva facciata contro la neve, talmente violenta da fargli mancare il respiro, a ridargli lucidità.

"Ti sei fatto male, amore?"

"No... cazzo, che botta!" disse tossendo.

Era tornato.

"Se non stai attento..."

Gli posò delicata sulle labbra il bacio che voleva dargli da ore.

"Ciao."

"Ciao."

"Mi sei mancato."

"Anche tu." Disse abbracciandola forte e trascinandola sulla neve con lui.

Il resto fu facile.

Scesero divertendosi.

Parlarono.

Di Oliver.

Del dispiacere che Zanna provava per lui, vittima di un padre freddo e cinico.

Di come si sentisse in colpa, ancora una volta, senza motivo, senza senso, ferito da altre ferite, da altri dolori.

Parlarono di soldi, che non avevano.

Di come avrebbero fatto.

Della partenza per l'Austria tra poco.

Degli allenamenti, delle gare.

Di loro e dell'estate, e di un altro inverno, e di un futuro da venire.

Di un viaggio. Parigi, magari. O forse Londra.

Ma Bebe aveva un'idea in testa.

Un'idea forte.

"Domani mi accompagni giù in pianura amore? Partiamo presto, così possiamo allenarci dopo."

"Che succede? Stai male?"

"No, non io."

"I tuoi?"

"No, tranquillo."

"Chi allora?"

"Domani te lo dico. Guido io."

"Non se ne parla."

"Dai, amore, fammi prendere la macchina. Se non ce la faccio, guidi tu, promesso."

"Uff... va bene... tanto contraddirti è impossibile."

"Grazie."

Bebe lo guardava.

Il viso più sereno, i lineamenti più distesi, gli occhi più dolci.

Il suo cucciolo.

"Ti ho mai detto che ti amo?"

"Sicura?"

"Sì, sciocco."

"Ti amo anch'io, amore."

"Promesso?"

"Cosa?"

"Che mi ami."

"Sì, promesso."

"Guarda che le promesse sono una cosa seria. Bisogna mantenerle."

"Non tutte."

"Ah, no?"

"Solo quelle importanti..."

"E questa lo è?"

"È la più importante di tutte."

Bebe lo strinse.

Era tornato.

Gli era mancato.

Non riusciva a pensare di stare senza di lui.

E l'aveva visto così perso, indifeso.

Avrebbe fatto qualcosa.

Era ora di dimostrarsi davvero la sua ragazza.

Una compagna.

Forse non era la cosa giusta, ma ci avrebbe provato almeno.

Doveva rischiare, non sopportava di vederlo stare così male.

Oggi sarebbe lei quella forte.

E domani gliel'avrebbe dimostrato.

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