Capitolo 40

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Daniel

"Dane, Dane! La quattro!" sentii domandarmi da una voce fievole, mascolina. Era vicina a me, proveniva dalla mia destra. Voltai la testa in sua direzione. Era Andrea. Accovacciato sul banco, le braccia appoggiate su di esso, cercava di comunicare col sottoscritto dall'altra parte della fila.

Quel giorno ci fu un solo assente. Ma fu sufficiente per sballare, in parte, i miei piani. Andrea non era più il mio vicino di banco. E fra venti persone che sarebbero potute capitare nel banco vuoto, toccò proprio a lui sedervici.
Ma non fu un grande problema, per noi. A forza di suggerire a tutti coloro che, durante l'anno facevano riferimento a me, ero diventato un esperto a passare informazioni anche a debite distanze.
Scritte sulle mani con penne facilmente lavabili per far sì che se la professoressa avesse deciso di fare un giro fra i banchi, non si sarebbe accorta delle macchie sospette d'inchiostro sulla pelle. Passaggi di evidenziatori con tappi al cui interno riponevo i bigliettini su cui avevo scritto i suggerimenti per i miei compagni giravano di continuo. E se il docente avesse chiesto perché parlassimo, la spiegazione risultava essere sempre la medesima:
"Ho chiesto un evidenziatore".
Era bello avere una certa complicità, in classe. Nessuno aveva mai osato spifferare nulla dei nostri piani ai professori. Nemmeno per ripicca. Perché accadeva spesso che alcuni miei compagni decidessero di non aiutare chi aveva bisogno. E la trovavo una cosa ingiusta. Anche a loro, sarebbe servito aiuto, prima o poi. Ne ero certo. Coloro che facevano questo tipo di cose non erano poi chissà che intelligentoni.
E quando domandavano aiuto a me, a volte preferivo fare finta di non sentirli.
E aiutare chi portava rispetto e complicità nei miei confronti.

Ovviamente avevo delle tecniche a cui ricorrevo anche per il sottoscritto: scritte sulla mano con penne dall'inchiostro non visibile se non con una luce violacea posta all'estremità di essa, matite contenenti bigliettini srotolabili su cui scrivevo delle informazioni, pezzettini di carta nascosti nelle maniche delle felpe...

Avevo iniziato a utilizzare queste tecniche soltanto con la fine della seconda superiore. Prima non ne avevo mai avuto la necessità. Se gli altri avevano bisogno di me, aiutavo. Ma personalmente, non avevo mai barato, preferendo studiare ogni volta. Poi avevo capito che potevo sì studiare come sempre. Ma ogni tanto avrei potuto trasgredire, segnandomi su un foglietto le formule complesse di matematica che difficilmente avrei imparato, nonostante la mia capacità mnemonica. O se l'avessi fatto, una settimana dopo la verifica, le avrei già dimenticate. Mentre il bigliettini, che tenevo nel portapenne anche per i successivi sei mesi alla verifica in caso di un controllo su quell'argomento, rimanevano lì.

Io e Andrea riuscimmo a suggerirci alla perfezione. Nulla intaccó la nostra conversazione, tanto prolungata da poter essere considerata persino una chiacchierata. Mancavano solo due tazze di tè. O meglio, una di tè e una di caffè. Andrea odiava il tè caldo.
Nessuno si accorse di nulla, nonostante dedicammo quasi la metà del tempo a sussurrarci possibili risposte per i quesiti.
Ero fortunato. In quei tre anni ero praticamente sempre stato all'ultimo banco. Dato che in classe seguivo, i professori avevano deciso che davanti sarebbe stato meglio mettere chi non lo faceva assegnandomi il posto, praticamente fisso, all'ultimo banco della fila centrale. Il posto perfetto per copiare. In realtà all'inizio dell'anno amavo mettermi sempre al primo banco, esattamente davanti alla cattedra. Tanto sapevo che i posti scelti da noi durante i primi giorni di scuola avrebbero avuto vita breve. E così, dopo una tortura di due settimane passate là davanti per fare buona impressione, lasciavo che, come da copione, al momento di cambiare i posti, i prof mi dicessero di andare all'ultimo banco, facendomi sostituire da quelli che, stupidamente, si erano messi in fondo.

Era bello vedere come la ruota girasse. Ovviamente a mio favore. Per due settimane passate davanti potevo avere ben otto mesi e mezzo all'ultimo; mentre per gli altri avveniva l'esatto contrario.
Non si trattava di preferenze dei prof. nei miei confronti. Ma di scaltrezza mia nei loro, virtù di cui i miei compagni parevano non abbondare poi così tanto.

Fu bellissimo vedere quanto io e Andrea fossimo complici e quanta, della nostra intesa, fosse stata vincente.
Alla fine, quando mancavano giusto quattro minuti alla consegna della verifica, ci rivolgemmo uno sguardo di ringraziamento.
Feci un'occhiolino ad Andrea e lui rispose con un bellissimo sorriso, permettendomi di osservare il lieve spazio fra i suoi incisivi di sinistra e una fossetta che, a furia di forzarla, era diventata piuttosto visibile.
"Cosa state facendo voi due?" venimmo rimproverati dalla professoressa. Per poco non sobbalzai.
"Cavolo...e adesso?" pensai al peggio.
"Approfittate di questi minuti per ricontrollare. Altrimenti vi ritiro il foglio e la vostra verifica termina qui".
"No, no. Va bene così" rispose Andrea, tagliando corto. Per poco non scoppiai a ridere. Il tono con cui aveva cercato di persuadere la professoressa era stato esilarante. Andrea mi rimproverò con lo sguardo, un po' per averlo deriso, un po' per farsi ringraziare nuovamente con lo sguardo per avermi salvato.

Abbassai lo sguardo sul foglio, ma la professoressa ebbe nuovamente modo di parlare.
"Anzi, consegnate pure" pronunciò. La guardai, sorpreso dal suo cambio d'idea fulmineo.
Io e Andrea fummo obbligati ad alzarci ed a darle il foglio, non prima di aver scritto nome, cognome, classe e data. Cosa che io facevo sempre alla fine di qualsiasi verifica per non perdere tempo.

La professoressa prese in mano i compiti giá consegnati da alcuni dei nostri compagni, abbassandosi gli occhiali per guardarci, seria. Vidi Andrea dirigersi verso la cattedra stringendo le labbra per evitare di ridere. Io cercai di non guardarlo. Sapevo che se avesse riso, lo avrei fatto anche io. E farlo in quella situazione sarebbe risultato fuoriluogo e offensivo, oltre che stupido. Saremmo, come minimo, stati cacciati fuori. Ma dato che la prof. di diritto era una donna piuttosto contorta, avrebbe certamente abbassato il punteggio finale dei nostri compiti.

Appoggiammo i fogli sulla superficie della cattedra, lucidissima, voltandoci di scatto per ridere liberamente, ritrovandoci faccia a faccia con la parete, certamente meno permalosa della nostra insegnante.

Tornammo ai nostri posti, attendendo che gli ultimi tre minuti dell'ora scorressero. Io mi occupai di sistemare lo zaino in modo che il libro, sporgente da esso, non venisse notato; stava quasi per cadere. Tolsi anche la penna bigliettino e quella che chiamavo 'The invisible, di cui di invisibile aveva soltanto l'inchiostro.

Poi mi guardai attorno. Com'era possibile che noi, tutt'altro che conoscitori degli argomenti della verifica, avessimo finito prima di tutti gli altri?
Erano ancora tutti chini sui loro compiti, nonostante il tempo che mancava al suono della campanella fosse davvero poco. Quegli ultimi istanti parvero essere loro di grandissima utilità. Quasi decisivi.

Al suono della campanella, un lamento generale si levò rimbombando nell'aula, sotto lo sguardo apatico della professoressa che giá aveva capito come fosse andata la verifica.
"Prof, ancora cinque minuti!" domandò un coro misto fra voci supplichevoli e scocciate.
"Consegnate" ordinò quella della nostra superiore, impassibile.

Io e Andrea fummo i primi a precipitarci fuori dall'aula.
"È fatta" pensai.
"Grazie, sei stato fantastico" mi disse Andrea, guardando in basso.
"Figurati. Anzi, grazie a te". Silenzio.
Poi Andrea scoppiò a ridere, appoggiandomi una mano sulla spalla.
"Hai visto la faccia delle prof., prima?".
"Prima quando?" domandai, divertito dall'espressione che aveva stampato in volto.
"Quando ci ha chiesto di consegnare. Ha fatto una faccia esilarante". Si mise af imitarla.
"Mh...sinceramente no. Ma sapevo che tu eri sul punto di collassare dalle risate". Sorrisi.
"Perché, tu no?" domandò provocante.
"No!" esclamai.
"Ma se ti ho visto!". M'indicò.
"Causa tua. Quando ti vedo ridere è come se fosse una cosa contagiosa. Non posso farci nulla. Se tu ridi o sorridi lo faccio anche io". Silenzio.
Non riuscivo a credere di averlo detto sul serio. Avevo davvero pronunciato quella frase? Speravo che Andrea non la intendesse come una specie di dichiarazione, un'apprezzamento nei suoi confronti. Ma solo una frase qualunque, una detta senza pensare.
Una delle tante frasi che spontaneamente dicevo. Magari senza dare un peso. Senza rendermi conto che, sommate l'una all'altra, qualcosa avrebbero provocato.

La storia d'amore ha inizioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora