13. Cirri biancastri e cieli plumbei

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«Pensavi di fare il furbetto, eh?» gracchiò il vecchio poliziotto, che a malapena attraversò la porta del suo ufficio, data l'immensa stazza della sua pancia.

L'albino sbuffò infastidito, ma non fece nulla per reagire. Anche perché non poteva. Quelle manette minuscole che gli legavano le mani dietro la schiena gli impedivano qualsiasi movimento possibile.

Il poliziotto lo buttò su una panchina a muro e si diresse verso la scrivania, appoggiando l'enorme sedere sul bordo. Incrociò le braccia al petto e scrutò malvagiamente il ragazzo.

«I tuoi amici sono stati fortunati a scappare. Ma li prenderò, non preoccuparti».

L'albino lo guardò con apparente apatia, ma dentro il suo corpo ribolliva una furia che non aspettava altro che traboccare fuori.
Era in quella stupida centrale di polizia perché Kilik aveva deciso di abbandonarlo proprio in un momento del genere, per andare dall'altra parte della città.

«Che stavate facendo? Perché eravate lì?».

«Rispondo solo in presenza di un avvocato».

«Stai peggiorando la tua situazione, saputello».

«Nella merda ci sono già fino al collo» ghignò Soul, spalmando la schiena contro la parete grigia e stiracchiando le gambe in avanti.

Il poliziotto sorrise beffardo, tornando ad appoggiarsi alla scrivania. Ma proprio mentre aprì la bocca con l'intenzione di insultare l'albino, qualcuno bussò alla porta dell'ufficio.

«Avanti!».

Una donna di media altezza, con un tailleur nero succinto e un paio di tacchi a spillo, entrò nella stanza. Soul saettò lo sguardo su di lei: portava i capelli neri a caschetto e la frangetta nascondeva di poco gli occhi verdi, pesantemente truccati. Di sicuro ci avrebbe provato con lei, se non fosse stato sul punto di finire in prigione.

«Posso aiutarla, signorina?» chiese il poliziotto.

«Sono il suo avvocato. Il mio cliente ha il diritto di rimanere in silenzio». 

La mora si avvicinò mostrando un tesserino all'uomo, che deglutì a fatica ricacciando a malapena indietro lo sguardo dalle sue cosce. Era bastata la presenza di una bella donna per fargli dimenticare di essere un autorevole e rispettabile poliziotto.

«Ahm... Oh! Si riferisce a questo qui?» realizzò, indicando l'albino stravaccato sulla panchina.

«Esatto. Hanno pagato la cauzione e sono qui a ritirarlo. Cioè, liberarlo. Farlo uscire, insomma. Ha capito».

«C-Certo!» ridacchiò nervoso l'agente, che, indietreggiando, provocò la caduta di alcune penne dal tavolo. «Ah! Che maldestro!».

La mora prese le stilografiche da terra e si rialzò con eleganza, posandole nelle mani del poliziotto.

«G-Grazie, signorina!» sorrise questi, iniziando a sentire caldo.

La donna piegò le labbra rosse in un sorriso e si avvicinò all'albino, che da allora non aveva fatto altro che fissarla imbambolato. 

«Hai sentito la mia mancanza?» sussurrò.

Maka non rispose e si girò verso il poliziotto.

«Lo può liberare, per favore? Non ha più le facoltà di tenerlo qui» disse con autorità.

«Hai capito il mio avvocato?» pavoneggiò Soul, rimanendo buono sulla panchina.

«Certo... subito!» esclamò il poliziotto, che fissò guardingo l'albino mentre gli toglieva le manette. 

VENOM [Soul Eater]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora