70. Gli amici si preoccupano anche quando non dovrebbero

4.4K 349 44
                                    

Entrai in cucina come un avventuriero s'inoltra nella foresta pluviale, guardandosi attorno e aspettandosi di essere attaccato da un momento all'altro da un'animale selvatico. 

Ad attendermi, invece, solo Jo che, udite udite, stava risistemando la cucina. Vedere Jo, intento a mettere in ordine, era più raro che vedersi tagliare la strada da un panda nel centro di Chicago. 

I segnali erano molto chiari, eppure imperterrita, come un eroe coraggioso, mi feci avanti e gli sorrisi. 

Non avevo avuto molto tempo, dal breve tragitto fin lì, per escogitare qualcosa da dire e, se proprio devo dirla tutta, mi sentivo perfino un po' stupida. 

Forse proprio perché la sua reazione mi aveva scioccato, per la prima volta non sapevo che cosa dire. Mi schiarii la voce, cercando di attirare la sua attenzione ma lui m'ignorò palesemente.

Evidentemente non aveva voglia di parlare con nessuno, neanche con me, ma io ero convinta che fosse meglio affrontare la questione subito, senza lasciare niente in sospeso. 

Perciò, con la mia solita insistenza, aprii bocca: «Jo, dobbiamo parlarne». Non volevo obbligarlo, e mi uscì un tono alquanto supplicante. 

Sì, cercavo di fargli un po' di pena, quel tanto che bastava per attirare la sua attenzione e permettermi di parlare seriamente. 

E visto che Jo è, essenzialmente, un uomo troppo buono, sapevo che non sarebbe riuscito a resistermi. Subdola ma, a mali estremi, estremi rimedi.

E, fedele come non mai, Jo alzò lo sguardo e mi fissò intensamente per qualche secondo. Poi sbuffò, un po' esasperato ma anche sconfitto: «Se proprio dobbiamo».

L-accoglienza non era delle migliori ma ero abituata anche a peggio, perciò mi feci avanti con coraggio ed ottimismo. Cosa poteva succedere di tanto brutto?

Mi appoggiai al bancone della cucina, quasi a cercare un sostegno mentre cercavo, invano, di incrociare gli occhi di Jo.

«Credevo che fossi felice di avermi conosciuto», iniziai, non sapendo bene come affrontare quel problema. Non lo sapevo perché in realtà non capivo effettivamente cosa avesse dato fastidio al mio coinquilino. 

La mia affermazione gli fece alzare la testa e interrompermi, prima ancora che potessi aggiungere qualcosa: «Non è questo Alice. Lo sai che ti voglio bene e che sono felice che tu sia venuta a vivere con noi».

Sembrava perfino dispiaciuto di avermi dato l'idea sbagliata con quel suo comportamento. Ma io non mi accontentavo di quelle poche parole, volevo capire. 

«E allora qual è il problema?».

Mi guardò come se davvero dovesse essere semplice comprendere il suo punto di vista. Come se non avrebbe neanche dovuto spiegare. Ma lo fece comunque. 

«Conosco Gregor ma da molti anni, ho imparato a volergli bene con il tempo, accettando tutte le sue fissazioni e le differenze. L'ho visto soffrire per amore, soffrire davvero, al punto che io mi sono reso conto di non aver mai patito le stesse sofferenze. Per me è come un fratello...».

Era la prima volta che sentivo parlare uno dei coinquilini con questi toni, ma loro rapporto era ben chiaro ad un primo sguardo, anche senza parole. 

Era la cosa che più mi aveva affascinato di quei tre ragazzi che vivevano insieme. La loro amicizia, il loro affetto e il modo così semplice di accogliere una persona come me nella loro vita. 

Si percepiva facilmente, anche per chi non li conosceva, il senso vero e proprio della famiglia. Di appartenere ad un gruppo compatto ed unito. 

Non mi era mai capitato di vedere delle persone, che non appartenessero allo stesso gruppo sanguigno, così unite come loro tre. C'era del vero affetto e ne volevo far parte, a ogni costo. 

I disastri di Alice (Ex La nuova coinquilina)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora