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[...] Dorothar si librò in volo. I suo regno, visto dall'alto, appariva più piccolo. Molto più piccolo.

Ancora per poco.

Avrebbe raggiunto il suo castello in poco tempo. Il minuscolo suo castello!

Ben presto, però, le cose sarebbero cambiate. Aveva il potere non solo di liberarsi di quella feccia arrogante dei membri del Consiglio dei Maghi. Ora poteva fare molto di più.

Poteva diventare una belva, trasfigurarsi e spostare gli oggetti con il pensiero. Sapeva sempre cosa provava il prossimo e, come conduceva alla morte, godeva di essenza vitale.

Con queste nuove, acquisite capacità avrebbe potuto raggiungere ogni vetta, un passo alla volta. Il dolore non era che un piccolo compromesso con cui sarebbe stato in grado di convivere.

Dazira interruppe la lettura. Era seduta sulla poltrona ormai da ore. Inspirò profondamente e tornò indietro di qualche riga. Forse aveva trovato qualcosa di interessante.

Con uno scatto si sollevò dalla sedia e cercò un pennino. Sul tavolo c'era ancora quello di Ladon. Alla sua vista, la ragazza sentì un nodo alla gola. Poi scacciò il ricordo e lo prese, immergendone la punta nella china di Ladon.

Con un tratto preciso, sottolineò:

Poteva diventare una belva, trasfigurarsi e spostare gli oggetti con il pensiero. Sapeva sempre cosa provava il prossimo e, come conduceva alla morte, godeva di essenza vitale.

Era lei. Era ciò che il demone poteva fare.

Rilesse ancora una volta, poi posò il pennino lì, dove lo aveva trovato, quasi come se Ladon fosse dovuto entrare da un momento all'altro per rimproverarla di aver toccato ancora le sue cose.

Quanto le mancava! Ma lui non sarebbe tornato, nemmeno per sgridarla. Dazira avrebbe dato qualunque cosa per essere ripresa da lui un'altra volta.

Con un gesto del capo cercò di scacciare fisicamente quel pensiero che le aveva invaso la mente, prendendo possesso del suo stato emotivo come un dannato parassita.

Si concentrò ancora una volta su quelle parole, sottolineate dal tratto fino della china ed arrivò ad una decisione: se queste erano le potenzialità del Nero, lei avrebbe imparato a sfruttarle tutte quante.

Se doveva condurre quella dannata vita, avrebbe imparato a conoscersi.

●●●

Ernik affondò, ma c'era solo l'aria ad accogliere la sua lama. Amila si era spostata rapidamente ed era ora in procinto di attaccare. Era veloce, la ragazza. Si muoveva sinuosa e rapida sui piedi, spostando continuamente il proprio peso da una gamba all'altra.

Ernik scartò il colpo di lato. Dopo tutto quel tempo passato ad allenarsi insieme a lei, aveva imparato a prevenire ogni suo attacco. Sapeva perfettamente, leggendoglielo in volto, quando sarebbe partita l'offesa.

Fu in quel momento che Ernik si accorse che, appoggiata al bordo della staccionata che recintava il poligono ove si stavano addestrando, una giovane domestica che il ragazzo non aveva mai visto lo stava guardando nella sua divisa color grigio topo, appena troppo larga per la corporatura esageratamente esile. Quando i suoi occhi incrociarono quelli di lei, la ragazza sorrise e gli fece un cenno con la mano.

Era carina, dai lunghi capelli biondo cenere e la carnagione rosea.

Amila attaccò di nuovo. Era forte, per essere una donna, ed Ernik ne ebbe un'ulteriore consapevolezza quando, distratto dal saluto dell'ancella, incassò il gancio sinistro della ragazza.

Con un gemito, Ernik arretrò verso la staccionata, ignorando la presenza di chiunque altro, intorno a lui, fuorché Amila. Lei, d'altro canto, non nascose un sorriso soddisfatto, con quella nota di scherno che sempre aleggiava fra loro durante i combattimenti atti ad allenarsi.

«Levati quel sorrisino, Amila, o te lo tolgo io!» le intimò mordendosi il labbro.

In tutta risposta, la ragazza ghignò vittoriosa. «Non aspetto altro!» lo provocò sorridente, accennando un nuovo attacco, come se volesse metterlo in guardia.

«Non dire cose di cui puoi pentirti!»

Amila si avvicinò ancora e colpì, ma Ernik deviò il colpo, con un contrattacco che fece vacillare l'equilibrio della ragazza. Un piede in fallo, e il cavaliere colse l'attimo per colpire. Nonostante il tentativo di parare il colpo, il pugno andò a segno e Amila iniziò a difendersi dall'offesa del ragazzo, indietreggiando ad ogni attacco di Ernik.

Una ginocchiata al fianco la piegò in avanti e bastò uno spintone a farla cadere, mentre il ragazzo ridacchiava.

Si stava divertendo, il cavaliere. Stavano giocando, come sempre.

Fu in quel momento che, mentre Amila era a terra, Ernik notò una cosa. Proprio lì, sul braccio ove la manica si era scucita urtando il terreno, la pelle della giovane pareva scurirsi in una sorta di ematoma violaceo, leggermente in rilievo.

«Ferma!» esclamò Ernik, con un'espressione pensierosa. Si chinò su di lei e le scoprì il braccio, scucendo la manica ancor di più. «Cosa cavolo...»

Amila alzò le spalle. «Credo di aver mangiato qualcosa che mi ha fatto male» dichiarò, nel vano tentativo di sollevarsi ancora la manica e sottrarsi a quella situazione imbarazzante. Ma il ragazzo non glielo permise. La teneva ferma, gli occhi nocciola concentrati su quelle enormi chiazze violacee, circondate da pelle raggrinzita.

«Non ho mai visto niente di simile» ammise lui. Poi, finalmente, si sollevò, mordicchiandosi il labbro inferiore.

Amila lo seguì a ruota, avvicinandosi alla staccionata e mettendo fine all'addestramento.

«Promettimi una cosa» disse lui, voltandosi di nuovo a guardarla. Ma non attese una sua risposta: «Promettimi che andrai in infermeria e ne parlerai con Silterio».

La ragazza annuì, benché Ernik avesse i suoi dubbi sul fatto che lei potesse ascoltarlo. Che lei potesse ascoltare chiunque altro oltre a sé stessa.

LA QUINTA LAMA (III) - I supplizi del potereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora