24 FUGA

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Un tonfo sordo. Poi, il gracchiante stridolio della porta in ferro che si apriva.

Gineris si alzò di colpo, mentre i suoi occhi esaminavano il buio nel tentativo di carpire cosa cavolo stesse accadendo, a quell'ora della notte.

Le sbarre della sua cella erano spalancate. Di fronte a lei, ad ostruirle la fuga, solamente una figura incappucciata.

La ragazza si avvicinò, cercando di identificare chi avesse davanti. Era un uomo di media statura e, a giudicare dalla corporatura, non poteva essere Caeli. Doveva essere Therar.

L'uomo sollevò appena il cappuccio e, in quell'istante, le gambe di Gineris parvero cederle. Non era Therar. Era Arthis.

Cosa diavolo stava facendo? Voleva liberarla? Perché?

«Andiamo» ordinò il re, solamente.

La ragazza non se lo fece ripetere due volte e lo seguì fuori dalla prigione, nell'oscurità del corridoio che separava le celle dall'entrata nelle segrete.

Steso a terra, svenuto, giaceva lo storpio guardiano che Arthis doveva aver colpito per non farsi riconoscere. Ecco cos'era stato quel tonfo!

Arthis stava liberando una traditrice, una condannata a morte e, sicuramente, la sua immagine ne avrebbe risentito se egli l'avesse fatto alla luce del sole. Di certo, avrebbero messo in discussione la sua capacità di governare.

Il re, giunti al pianoterra del palazzo, svoltò in un corridoio laterale che portava ad un vicolo cieco.

«Arthis!» mormorò Gineris, afferrandogli la mano e fermandolo. «Perché lo stai facendo?»

I suoi occhi dolci la fissarono carichi di una tensione ed un'emozione che Gineris percepiva crescere dentro di lui. «Non posso lasciarti morire» disse solamente, con la voce carica di una disperazione che la ragazza non gli aveva mai sentito addosso. Poi passò le sue mani sulle goti di lei e la attirò a sé per un lungo, violento bacio, carico di un sentimento che nemmeno il demone ospite dell'animo di Gineris seppe quantificare.

Arthis si staccò e la fissò intensamente. «Voglio che tu te ne vada. Questa è l'ultima volta che mi vedrai» disse. «Intesi?» domandò, poi, quasi stesse, però, parlando a sé stesso. «La prossima volta che varcherai le mura di questo palazzo ti attenderà la forca».

Le lacrime della ragazza iniziarono a sgorgare silenziose. Ella sapeva che, in qualunque caso, lei non avrebbe più visto quell'uomo. Quell'uomo che, all'inizio, non era nient'altro che un vezzo, un gioco, un mezzo per gestire al meglio il suo ruolo. Un uomo che credeva essere un semplice ragazzo viziato, un lord materialista e pieno di sé. Ma che non si era rivelato, fin dal principio, ciò che ella si aspettava di incontrare. Arthis era un uomo buono, un idealista e un giusto. Finalmente, il regno aveva qualcuno a cui importava davvero dei suoi sudditi e, senza di lei a corte, il suo popolo avrebbe prosperato. Perché lei, con la sua maledizione, era puro veleno per lui.

«Intesi» confermò Gineris, passandosi una manica sotto agli occhi, per asciugare i goccioloni. Poi seguì Arthis in un passaggio segreto che li avrebbe portati fuori da quel vicolo cieco.

Proseguirono in silenzio, senza essere visti, lungo i corridoi meno trafficati dalla ronda.

Finalmente, l'aria del cortile li accolse, fredda e carica di umidità. Si mossero agili fra i cespugli e le ombre degli alberi, evitando ogni sguardo inopportuno.

Avevano appena passato le mura, infilandosi in una fessura di cui Gineris non sapeva nemmeno l'esistenza, benché fosse al servizio di Arthis, oramai, da un paio d'anni, quando un urlo li colse alla sprovvista.

«La prigioniera! Sta scappando!» gridò la guardia, dalla torre di vedetta.

I due iniziarono a correre in direzione della foresta. L'avevano quasi raggiunta quando Gineris udì il fruscio della freccia prima di un gemito. Arthis.

La ragazza si voltò. Il corpo del re era riverso a terra, la fine di un dardo piantata tra le spalle. Dietro di lui, la guardia che aveva urlato aveva in braccio un arco. Gineris non ci pensò. Si avvicinò ad Arthis e, sfoderato il pugnale che portava alla cintola, lo lanciò dritto verso il cranio dell'inseguitore, uccidendolo sul colpo.

Il corpo del re non accennava a muoversi. La ragazza si chinò su di lui e lo voltò delicatamente. Era rigido, esanime.

Urlò. Un grido straziante che risuonò per tutto il cortile.

Uno squarcio nel suo petto, ed una sola consapevolezza: era colpa sua. Era la sua maledizione che, ancora una volta, si era compiuta.

Scoppiò in un pianto a dirotto, mentre accarezzava debolmente il volto del re di Forterra, ormai solamente un corpo privo di vita.

Non sentì nemmeno i passi avvicinarsi. «Ferma dove sei!» ordinò Ernik, l'unico, a quanto pareva, ad aver assistito alla scena.

Gineris si sollevò in piedi, guardandolo con disperazione. Il ragazzo, a pochi passi da lei, la stava minacciando con la spada, mentre osservava inorridito gli occhi vitrei di Arthis.

La ragazza si destò, asciugando le proprie lacrime con il polso, ma i suoi occhi iniettati di rosso raccontavano più di quanto lei stessa avrebbe potuto fare a parole.

«Ernik!» Inspirò profondamente. Doveva andarsene di lì. «So che ti sembrerà assurdo, ma ho lasciato un messaggio per te. Nelle stanze di Dazira» dichiarò Gineris. A dire il vero, era sorpresa che egli non avesse ancora trovato nulla dal momento che aveva scritto la lettera qualche giorno prima.

Il cavaliere scosse il capo, il volto carico di odio e incertezza. «Cosa ti fa pensare che ti lascerò andare?»

«Perché non sono stata io ad uccidere Arthis!» rispose la ragazza, ormai preda delle proprie emozioni. Le lacrime sgorgavano involontariamente, nonostante la giovane donna tentasse in tutti i modi di fare appello alla propria razionalità. «Perché lui voleva che fossi libera! E, perché tu, per lui, nutrivi una profonda stima!»

Lo sentiva. Sentiva che quel ragazzo, in fondo, nell'averla vista china sul corpo del re, nutriva per lei una strana compassione.

«Lui è morto, ora. E, in qualche modo, è colpa tua!» eruppe lui, mentre una lama invisibile pareva trapassarla da parte a parte. Semplice, cruda verità.

«Ti prego, Ernik!» replicò Gineris, esasperata. In lontananza, le urla degli uomini si facevano sempre più alte. «Ascoltami: dovrai andare nelle stanze di Dazira e aprire il primo cassetto della scrivania. Troverai una mappa. Tra due giorni dovrai raggiungere il luogo indicato nel foglio con un esercito di almeno cento uomini».

Ernik fece una smorfia. «Cento uomini? Perché dovrei farlo?»

«Perché andrete nel covo della setta. Nel momento in cui tutti i confratelli saranno presenti» rispose lei, lanciando un'occhiata dietro di sé, verso la foresta.

«Come posso crederti?»

Silenzio. Un lungo istante di silenzio. «Perché hai visto il mio dolore» rispose Gineris, infine.

Ernik parve vacillare. «Non prova nulla» ribatté. Le urla si fecero prepotenti: presto gli uomini li avrebbero raggiunti.

Il cavaliere sospirò profondamente ed abbassò il capo e, con esso, la spada. «Vattene! Se mi hai mentito, passerò il resto della vita a darti la caccia per ammazzarti con le mie mani!» ordinò, ferreo, mentre un'occhiata d'intesa silenziosa sanciva l'inusuale accordo fra i due.

LA QUINTA LAMA (III) - I supplizi del potereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora