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«Sono qui in vesti ufficiali, Amila» esordì il ragazzo, prendendo posto davanti a lei, al di là del piccolo tavolo usurato. «Perciò lascia fuori di qui ogni tuo dissapore nei miei confronti, per cortesia!»

Le pareti di pietra scura facevano sembrare l'ambiente stantio ancora più piccolo.

Amila era seduta su uno sgabello piuttosto alto ed usurato, tanto che, ad ogni suo movimento, oscillava un poco.

«Non nutro che delusione, verso di te» mormorò la ragazza, scuotendo il capo. «E lo sai».

Ernik aveva deciso che non avrebbe dato adito ad ogni riferimento a ciò che c'era stato fra loro. La questione era fin troppo grave. «Te lo chiederò gentilmente una volta sola» enunciò in tono duro. «Perché sono tornati a palazzo soltanto coloro che si erano ammalati?»

«Sono sicura che, se me l'hai chiesto, tu abbia già una risposta» rispose lei mordendosi il labbro con un gesto nervoso. I suoi capelli lunghi e castani le ricadevano scomposti ed annodati lungo i fianchi e il solco delle occhiaie metteva ancor più in risalto il verde acceso dei suoi occhi.

«Amila, non sto giocando!» esclamò Ernik, picchiettando il tavolo con le nocche. «Perché sono morti solo i soldati? Chi li ha uccisi?» interrogò alzando un poco il tono della voce. Per un lungo istante, nella stanza, calò il silenzio. La ragazza non accennava a parlare. «Amila, per tutti i diavoli! Rispondi alle domande!» urlò lui, spazientito.

«Chiedimi quello che vuoi veramente chiedermi, allora!»

Impertinente, come sempre era stata. Persino in quella posizione aveva il coraggio di rimbeccarlo. «Siete stati assaliti dai ribelli durante il viaggio di ritorno?» chiese Ernik dopo un sospiro che ebbe il potere di acquietare i toni.

Amila inspirò profondamente. «No» disse infine.

«Hai ucciso dei soldati di Forterra?»

Quella domanda, sospesa nell'aria, era qualcosa che il cavaliere mai avrebbe voluto chiedere. Era il quesito la cui risposta, se positiva, avrebbe sancito la fine di ogni rapporto fra loro, e, forse, sarebbe stata anche la firma per la sua gogna.

«S-sì» balbettò, dopo un istante infinito. All'improvviso, tutta la sua sicurezza pareva svanita nel nulla. «Sì, l'ho fatto» ripeté, come se quel sussurro non fosse già stato sufficientemente assordante.

Ernik batté un pugno sul tavolo, senza riuscire a trattenere la delusione. «Dannazione, Amila! Perché?» sbraitò fissandola in quegli occhi cerchiati.

Lei iniziò a piangere silenziosamente, con l'evidente sforzo di trattenere i singhiozzi e conservare un po' della sua dignità.

«L'ho promesso» mormorò Amila in risposta.

«Promesso? A chi cavolo dovresti aver promesso una tale assurdità?» Ma, mentre poneva il quesito, Ernik iniziava a comprendere.

«Lo sai. A loro» asserì lei, infatti. «Avevano detto che se non l'avessi fatto, la malattia avrebbe colpito ancora e sarei morta. Chi mi ha guarita voleva la mia fedeltà, e io gliel'ho data» ammise, mentre il suo volto si rigava e le goccioline salate giungevano al mento. Questa era la prova che attendeva: i Rituali minacciavano la Corona di Forterra. «Ernik... mi dispiace! Tu non sai quanto!»

Già. Le dispiaceva. Ma nessuno avrebbe riportato in vita tutti quei soldati. Nessuno avrebbe cancellato ciò che avevano fatto. Nemmeno lui.

«Sai come si chiama questo? Sai cosa succederà ora? Pensi di potertela cavare dicendo che ti dispiace?» ringhiò il cavaliere, alzandosi in piedi. La sedia aveva improvvisamente iniziato a scottare. «Questa è una cosa seria, maledizione! Sai meglio di me cosa succede ai traditori!»

Amila si asciugò le lacrime. Invano, poiché, immediatamente, ne sgorgarono altre. «Mi uccideranno» dichiarò sommessamente, gli occhi rossi e lucidi.

«Molto probabile, Amila» confermò serio Ernik, per poi spingere la sedia un po' più lontana, facendola stridere. «Non posso crederci!» esclamò serrando la mascella.

A quel punto, la ragazza esplose, incapace di trattenere i singhiozzi ulteriormente. «Ti prego, non guardarmi così!»

Ernik ignorò la supplica, dirigendosi verso l'uscita mentre un déjà-vu si faceva strada nella sua mente, con Dazira al posto di Amila. «Non è di come ti guardo io che dovresti preoccuparti» disse, prima di lasciarla sola nella stanza.

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Pheanie si sedette aggraziatamente sull'enorme poltrona del salottino, il libro posato sulle gambe. Era appena stata in biblioteca e, recuperato un tomo dal titolo promettente, si era dileguata per non dover sopportare la sgradevole presenza di Pustos.

Trascorse non più di una mezzora, quando, dall'entrata del passaggio segreto che portava ai propri alloggi, fece capolino la zazzera scura di Therar, spaventandola per l'improvvisata a tal punto che, dallo scatto, la principessa chiuse il libro, alzandosi in piedi.

Dopo un primo momento, quando la figura di Therar fu completamente esposta, la ragazza non riuscì a trattenere un sorriso.

Therar non era oggettivamente bello. I suoi tratti erano marcati e il suo volto leggermente asimmetrico, ma qualcosa, forse nell'espressione, forse nel modo di fare, lo rendeva incredibilmente affascinante e Pheanie ricordava perfettamente come ella stessa si fosse sentita ammaliata dalla sua presenza quando lo aveva conosciuto.

La ragazza stava per gettargli le braccia al collo, quando lui la fermò. «Pheanie... principessa... io...» Sembrava in imbarazzo, come mai lo aveva visto. «Devo dirvi una cosa» asserì il ragazzo, infine.

A quella frase, lei ammutolì. Era come se, dentro di lei, già sapesse cosa sarebbe seguito. Come se quel momento, una parte del suo cuore, lo stesse aspettando. «Dirvi?» ripeté la principessa, lentamente. Sospirò. «Capisco» sussurrò poi.

«Vi devo chiedere scusa, ma...»

«Lo so. Lo so da un po', in effetti» ammise, precedendo qualunque sproloquio. Glielo leggeva negli occhi. Tutto ciò che lui avrebbe voluto dirlo era sulla superficie delle sue profonde pozze nere. «Ho visto come la guardi».

E, nonostante tutto, nonostante avrebbe voluto esserlo, Pheanie non riusciva a risultare arrabbiata. Forse sarebbe arrivata dopo, la rabbia. Ma, in quel momento, Pheanie si sentiva solamente... vuota. Lui non era più suo. Non lo era mai stato e, in qualche modo, la principessa lo aveva sempre saputo.

Therar si passò una mano fra i capelli, ricambiando lo sguardo, con in volto l'espressione con cui sperava di non essere mai fissata: pena. «Non so per quale motivo, sul serio! Lei è una tale scocciatura!» esclamò il giovane, scuotendo la testa.

«Potrei farti una lista infinita di motivi per i quali tu ti sia affezionato a quella ragazza, ma non è necessario. Perché non è necessario che vi sia un motivo. È così e basta!»

Lo sguardo di Therar si addolcì e, per un lungo istante, non parlò. «Per quello che vale la mia opinione, siete la donna migliore che io abbia conosciuto» dichiarò poi.

Pheanie si morse con forza il labbro inferiore, soffocando la propria frustrazione. Avrebbe fatto meno male sentirsi dire qualcosa di forte, qualcosa di negativo, forse. «Vorrei che fosse sufficiente» affermò con voce rotta. «Ma non è così, Therar. E non lo sarà mai».

Poi invitò il ragazzo ad uscire dalle proprie stanze, così da poter sfogare nella piena solitudine la propria delusione.

LA QUINTA LAMA (III) - I supplizi del potereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora