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Niente di nuovo. Per due giorni non avevano fatto altro che girare per la città, nel fasullo tentativo di vendere merce raccattata alla villa di Gyleano e che, certamente, il principe avrebbe ripagato presto al legittimo proprietario.

Gli abitanti di Piccolo Fiume, come già avevano potuto constatare in precedenza, erano assai poco propensi a spettegolare in modo azzardato in merito a ciò che stava accadendo loro intorno. Sapevano di essere osservati.

Tranne quel tale, Ehicor... Dazira aveva deciso che ci avrebbe parlato ancora una volta. Così, quel giorno si era informata in merito a dove egli stesse di casa, venendo a sapere da un oste che l'uomo risiedeva ai margini della città, vicino alle mura, ma relativamente distante dalle porte di Piccolo Fiume.

Era, ormai, il tramonto quando la ragazza si incamminò per raggiungere la piccola proprietà dell'uomo. A quell'ora, le strade erano semideserte e nell'aria aleggiava il profumo del cibo proveniente dalle abitazioni.

Il buio sarebbe giunto di lì a poco e Dazira accelerò il passò. Le vie, in quella parte della città, erano visibilmente poco battute e l'odore fetido delle feci prese ben presto il posto di quello delle pietanze che le cuoche di casa stavano servendo alle loro tavole.

La ragazza iniziò a contare le vie laterali, per poi fermarsi davanti all'ottava. Doveva essere proprio quella.

Si addentrò nel vicolo, stretto e maleodorante. Con tutta probabilità non girava gente raccomandabile da quelle parti.

Fu allora che trovò Ehicor. Il suo corpo inerte era steso a terra, riverso in un'enorme pozza di sangue che gli sgorgava dal fianco, dal naso e dalla bocca, impregnandogli barba e vestiti.

Rimase a fissarlo per qualche secondo, nell'oscurità del vicolo. Poi, dei toni perentori la destarono: «Ehi, tu! Fermo lì!»

A giudicare dalle movenze e dalle voci, dovevano essere le guardie. Non poteva rimanere lì: avrebbe fatto saltare la sua copertura.

Dazira iniziò a correre, svoltando nei vicoli come in un labirinto, smarrendosi fra le vie della città al fine di far perdere le proprie tracce. Le guardie la seguirono per diversi minuti, poi parvero arrendersi.

Di certo, avevano pensato che fosse lei l'assassino di Ehicor. La ragazza, tuttavia, dubitava che i soldati avessero capito di inseguire una donna, tanto le luci della sera tradivano ciò che gli occhi avrebbero immediatamente colto con il sole.

Fu un istante. Due braccia si mossero rapide e l'afferrarono per le spalle, spingendola contro la parete in mattoni.

«Dove diavolo eri finita?» L'ammonimento severo era carico di rimprovero.

Dazira, con uno strattone, spinse via il ragazzo, recuperando il proprio spazio vitale. «Therar!» esclamò, riprendendosi dallo spavento con il tono un po' troppo alto. «Io ero...»

«Non importa. Vieni!» E, senza attendere risposta, la guidò nuovamente verso la piazza della fontana, ove il lampionaio stava accendendo le fiaccole che illuminavano le strade.

Il buio era calato in fretta e la gibbosa crescente aveva fatto capolino nella volta celeste. Dalla foresta spirava un vento carico di umidità e il fiume che attraversava la città appariva inquieto e torbido. Nonostante l'aria lasciasse percepire il sentore della pioggia, guardando il cielo, delle nuvole non c'era traccia.

Stavano camminando da un po' ed avevano rallentato il passo a tal punto da trasformarlo in una passeggiata. Dazira si accorse che, lì ove avrebbero dovuto svoltare, Therar non aveva accennato ad avviarsi.

«Dove stiamo andando?» domandò la ragazza, con il cipiglio in volto. «Non torniamo dagli altri?»

Therar ricambiò lo sguardo ed accennò un sorriso. «Fidati di me» dichiarò.

LA QUINTA LAMA (III) - I supplizi del potereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora