Epilogo - parte 2

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Dazira si sollevò a sedere, la schiena tutta sudata.

Gli incubi non l'avevano mai abbandonata e la ragazza sapeva che avrebbe dovuto convivere con la sua colpa per tutta la sua vita.

Con la coda dell'occhio, guardò il cassetto del grande armadio in legno massiccio nel cui doppiofondo c'era lui, la sua fonte di salvezza. Più volte quella visione si era fatta allettante: una pugnalata e sarebbe stato tutto finito.

Ma lei era egoista. Troppo attaccata alla vita per accettare la morte.

Scorse il suo riflesso sul vetro della finestra aperta: i capelli castani e mossi le scendevano, ormai, fin sotto il seno e la camicia da notte bianca faceva risaltare il colorito che l'estate appena trascorsa al servizio della principessa le aveva donato.

A guardarsi ora, seduta in quel letto gigantesco con la schiena bene eretta, Dazira poteva scorgere i segni del suo cambiamento: il suo corpo si era fatto più armonioso, lo sguardo più femminile. La ragazza aveva iniziato a riconoscere l'effetto che la sua presenza aveva sugli uomini. E le piaceva.

Nel complesso, lei si piaceva.

«Stai diventando vanitosa» le aveva fatto notare scherzosamente Ernik qualche tempo prima, quando l'aveva sorpresa a guardarsi allo specchio mentre si pettinava con cura i capelli. La verità era che, in fondo, il ragazzo non aveva tutti i torti...

Con un sospiro, si alzò in piedi, lisciando con la mano le lenzuola sotto di lei mentre atterrava con un piede sul morbido tappeto che era stato posizionato a lato del letto.

La stanza era grande, più di quanto fosse necessario, ma Pheanie aveva insistito perché alla sua amica non mancasse nulla durante i suoi soggiorni a palazzo.

Erano più di due anni che Pheanielle era regina e, nonostante non fosse mai stata preparata a ciò, se la stava cavando egregiamente.

Un soffio di vento più forte e il rumore di due ali che sbattevano destarono l'attenzione di Dazira. In un attimo si voltò e, appoggiato al piano della finestra, la ragazza riconobbe un gigantesco gufo dal piumaggio scuro.

Più volte aveva notato il gufo aggirarsi nei dintorni del palazzo, di notte. Ma mai si era avvicinato così tanto alla sua stanza.

Senza quasi rendersene conto, sussultò alla vista dei due grandi occhi scuri.

«Ciao, Therar» mormorò la ragazza tenendo lo sguardo fisso su quelle pozze nere.

Davanti a lei, il gufo prese le sembianze di un ragazzo dai capelli scuri, con indosso gli abiti che erano stati creati per lui, per permettergli di trasformarsi: un paio di pantaloni neri infilati dentro a degli stivali pesanti ed una camicia dello stesso colore, stretta in vita da una cinta alla quale era legato un pugnale. Un pugnale che Dazira conosceva molto bene poiché ne possedeva uno quasi identico.

«È imprudente tenere le finestre aperte» affermò Therar, senza distogliere da lei il suo sguardo penetrante.

La ragazza scosse le spalle. Chi avrebbe mai avuto il coraggio di entrare di nascosto nella camera del demone? Di tutte le stanze, con buona probabilità, la sua era la più sicura.

Dazira incrociò le braccia davanti al proprio petto. «Ho pensato che così avresti smesso di seguirmi» ribatté la ragazza con aria di rimprovero, benché nel suo corpo fosse un susseguirsi di emozioni contrastanti.

«Così... lo sapevi».

Lei scosse il capo con una risata strozzata. «Come avrei potuto non accorgermene? Il gufo, il cervo dell'altro giorno, nella foresta, il cavallo del mese scorso...»

«L'hai fatto apposta, quindi!» esclamò Therar spalancando gli occhi mentre si passava una mano tra i capelli corti. «A farmi stancare così tanto».

Dazira nascose un sorriso soddisfatto ed alzò le spalle. «Una piccola vendetta» ammise con un'aria innocente che ben si armonizzava con il suo volto dai lineamenti delicati, gli occhi angelici e il naso coperto di piccole lentiggini nascoste appena dall'abbronzatura.

Di fronte a lei, l'espressione del ragazzo si aprì in una divertita incredulità. «Sei diventata proprio una bastarda!» commentò con una risata.

Dazira, dal canto suo, faticò a trattenere un sorriso. In fin dei conti, non è cambiata poi tanto, si trovò, però, a considerare tra sé e sé Therar. Ora aveva ventun anni, era una donna. Eppure c'era qualcosa, nel suo sguardo, che ricordava la ragazzina impaurita che lui aveva addestrato cinque anni prima.

«Ho avuto un bravo maestro».

Per un lungo istante, tra i due calò il silenzio, benché entrambi ne avessero di cose da dire.

Therar si sorprese a fissarla imbambolato. Più volte si era appostato a guardarla, negli ultimi due anni, senza che lei se ne accorgesse. Ma ora, così vicina, con indosso solo una semplice veste candida che lasciava intravvedere più di quanto fosse appropriato, era una visione incantevole.

«Sei bellissima» sussurrò il ragazzo ammirando il rossore delle sue gote in quella situazione così privata. Dazira era un'immagine candida, benché lui sapesse quanto fosse nero ciò che la ragazza si portava dentro.

Una cosa, fra tutte, l'aveva sempre colpito di lei: nonostante tutto, la ragazza non si era mai liberata della purezza della sua anima. Di quella sincera capacità di vivere di emozioni senza precludere a sé stessa la possibilità di provare ogni sfumatura, bianca o nera che fosse, della vita.

E, di tutto ciò, di quanto fosse incredibile, Dazira era del tutto ignara. Ma quella ingenua delicatezza aveva sempre fatto parte del suo fascino.

«Perché sei qui?» sbottò lei con una finta indifferenza mal riuscita. La sua voce, infatti, tradiva una tensione satura di parole sospese. «Cosa mi devi dire, Therar?» incalzò ancora.

Cosa doveva dirle? Therar non lo sapeva più. Non si erano più parlati da quella volta, quella in cui lei gli aveva detto addio.

Ci sarebbero state tante cose che avrebbe potuto raccontarle, ma la sua mente sembrava aver cancellato ogni traccia di un discorso sensato. Poi decise che, in fin dei conti, non gli importava che il discorso fosse sensato. Lei avrebbe capito lo stesso. «Io... volevo... soltanto vederti» affermò senza distogliere lo sguardo. «Ringraziarti. E chiederti scusa» continuò mentre a passi lenti avanzava di poco nella sua direzione.

La ragazza rimase immobile, la fronte aggrottata in un'espressione indecifrabile. Ma non accennò ad indietreggiare.

Therar si fermò a pochi centimetri da lei, con un sorriso a fior di labbra mentre leggeva tutto il timore negli occhi di lei. «E dirti che non importa quale sarà la tua scelta, io continuerò a vegliare su di te...» aggiunse lui con semplicità, lasciando che la ragazza comprendesse la serietà delle sue parole. «Perché ti...»

Ma Therar non concluse la frase, perché le labbra calde e morbide di Dazira glielo impedirono.

A quel punto, il ragazzo si lasciò andare, stringendola a sé ed inspirando il suo profumo a pieni polmoni. Dannazione, quanto le era mancata!

Rimasero abbracciati per molto, molto tempo, durante il quale Dazira permise a Therar di distruggere un pezzo considerevole del muro che li separava, mentre lui lasciava che lei comprendesse e tracciasse i confini della sua anima, nascosta all'interno del suo segreto. Un segreto che solo loro conoscevano.

Dazira si staccò un poco e, dopo un sospiro, si liberò dalla presa, dandogli le spalle per recuperare la vestaglia, accorgendosi solo in quel momento di essere ancora in camicia da notte.

Therar sorrise sincero, osservandola muoversi sinuosamente nella camera. «Questo vuol dire che mi perdoni?» le chiese appoggiandosi con un braccio all'armadio imponente.

Silenzio. Per un infinito istante.

Poi, Dazira si voltò di nuovo. «No» rispose mordendosi il labbro inferiore, nel goffo tentativo di nascondere un sorriso. «Non ancora» aggiunse. «Un giorno, forse».

LA QUINTA LAMA (III) - I supplizi del potereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora