9.2

111 8 0
                                    

La città appariva immobile, un'immagine ferma incastonata nel tetro paesaggio notturno.

Dazira, dal tetto del palazzo, leggeva alla luce della fiaccola, con la mera compagnia dei rumori della notte che parevano rompere il quadro inanimato.

Nonostante il vento freddo ed incessante della sera che ben si percepiva del tetto della locanda, Dazira pareva perfettamente a suo agio seduta sulle tegole, nella quiete del paesaggio, concentrata sulle pagine incartapecorite.

Il tetto vibrò sotto il peso dei passi di qualcuno e Dazira distinse la figura di Ernik prima ancora che la luce della torcia lo illuminasse.

«Non riesci a dormire?» domandò il giovane, prendendo posto accanto alla ragazza. I capelli erano sciolti e lunghi quasi fino alle spalle, completamente spettinati, come li teneva sempre da bambino.

«No» ammise Dazira con un sospiro, chiudendo il volume che teneva fra le gambe. «Tu?»

Ernik, in risposta, negò con il capo. «Lo saprai a memoria, quel libro!» esclamò poi, indicando il tomo rivestito in cuoio con il mento.

La ragazza alzò le spalle. «Quasi...»

«Di che parla?»

Dazira parve pensarci. Una parte di lei desiderava parlarne con lui, come aveva sempre fatto prima che le loro vite cambiassero irrimediabilmente; un'altra parte, però, sosteneva l'idea che, dopo tutto ciò che era successo, Ernik non meritasse di essere messo a parte di qualcosa che la riguardava.

Orgoglio. Questo era il punto focale della sua reticenza.

Ormai, però, aveva deciso quale sarebbe stata la sua posizione. Le cose non sarebbero più state come prima... ma ciò non voleva dire che avrebbe escluso per sempre Ernik dalla sua vita.

«Di me rispose la ragazza. «O, meglio... anche di me... Parla di demoni» si corresse, poi.

«Ecco perché non riesci a dormire!»

A quelle parole, a Dazira sfuggì un sorriso. Poi, si morse un labbro nervosamente. «Sto cercando di capire...» asserì.

Il cavaliere aggrottò la fronte, guardandola negli occhi alla flebile luce della fiaccola. «Ti posso aiutare?»

Un secondo di silenzio. La ragazza fissò Ernik, poi aprì il libro, voltando pagina in ogni senso possibile.

Trascorsero diversi minuti a parlare, mentre Dazira riassumeva il contenuto del racconto, approfondendo nel dettaglio i punti che le avevano creato maggiore perplessità. Ernik ascoltò con attenzione ed interesse e, per un po', sembrò loro che le cose non fossero mai cambiate.

«Vedi... quello che io mi sto chiedendo è: se cinque sono le spade, cinque sono le penitenze e cinque sono i poteri del demone... potrebbe essere che ad ogni potere corrisponda un supplizio...» spiegò la ragazza, indicando con le dita alcune righe dello scritto.

Il vento soffiò più forte e il cavaliere, accanto a lei, si strinse di più nelle braccia, vestito solo con una camicia blu scuro che gli cadeva morbida sul petto e si arricciava in vita, ove era stata inserita nei pantaloni. «Potrebbe avere senso... Solo... perché, allora, tu non percepisci le emozioni altrui o non sposti gli oggetti con il pensiero?»

«Penso che quelli fossero i poteri originari del demone... con il tempo, magari, si è indebolito!»

Ernik arricciò le labbra e parve considerare l'idea, ma il suo sguardo era palesemente scettico. «O, come hai detto prima, si è conficcato più pugnali, liberandosi dai supplizi...» suppose prendendo delicatamente il libro fra le sue mani e sfogliando le pagine in modo da mettere a confronto più passaggi.

«...Lasciando a me il desiderato potere di morte della Belva in compagnia di un profondo senso di colpa!» concluse Dazira, con un sorriso amaro a fior di labbra.

Il ragazzo spostò gli occhi su di lei. «Che fortunella!» esclamò, imitando la cuoca che lavorava a palazzo quando erano bambini. Era una donna assai buffa, con una corporatura massiccia e i capelli radi, seppur lunghi, sempre legati in uno chignon che metteva in risalto il doppio mento.

I due, a quel ricordo, scoppiarono a ridere.

Ernik fu il primo a destarsi, tornando improvvisamente serio. «Ma, se, di cinque, a te è rimasto un pugnale con un solo "dono"... è possibile, mi chiedo, che esistano ancora gli altri quattro?»

Già... era possibile? Dazira se l'era domandato più volte negli ultimi tempi.

Ma, quella sera in particolare, non riusciva a smettere di pensare a Therar. Se ciò che stavano supponendo si fosse rivelato vero, poteva essere Therar uno di quei quattro? Aveva estratto anche lui una delle cinque lame?

●●●

Mancavano pochi minuti. Il sole era sorto da non più di una mezzora e tutti i malati erano stati portati alla cava in attesa che i Rituali uscissero da quello che – dagli abitanti di Piccolo Fiume – era stato definito il loro tempio: un buco nella roccia nel quale nessuno aveva il diritto di mettere piede se non voleva essere maledetto da qualche famigerata stregoneria pagana.

Di coloro della spedizione che avevano contratto il morbo, nessuno era, oramai, più in grado di reggersi in piedi. Il viaggio, il tempo e la malattia parevano averli depauperati delle loro forze.

La cava dalle pareti colorate era illuminata dalla luce calda del mattino, con un gioco di colori che, in altre circostanze, avrebbe estasiato tutti.

Intorno al gruppo facente parte della spedizione commissionata dal principe Arthis, vi era una folla numerosa formata da chi aveva disperatamente deciso di chiedere aiuto per guarire dalla malattia e da molti curiosi che, informati della presenza del re, avevano deciso di assistere al rito.

I Rituali sarebbero usciti di lì a momenti, dopo aver svuotato, come da procedura, la cesta in vimini contenente tutte le richieste di guarigione, scritte sulle superfici fra le più diverse: chi, come il sovrano, aveva scritto il proprio nome su pergamena, chi su pezzi di legno, chi su cocci, chi su sassi.

Di fianco al nome, era stato spiegato ad Ernik, era necessario far cadere una goccia di sangue, affinché il dio pagano potesse riconoscere la purezza dell'anima del malato.

La cesta era stata consegnata all'alba e, da allora, non si avevano avute più notizie.

Quando, tra le fila più vicine al sovrano, si erano udite le prime voci di protesta, gli abitanti del villaggio avevano fatto presente che, se infastiditi, i Rituali non sarebbero usciti dal covo ed avrebbero chiuso la roccia dall'interno. Una volta, aveva raccontato una giovane sarta, non erano usciti per un mese.

Essi erano, a quanto risultava, dei sacerdoti devoti agli spiriti, totalmente innocui, che abitavano da anni fra le colline vicino a Piccolo Fiume, in una ristretta area della cava più famosa del regno. Perché, allora, a corte non era mai giunta notizia della loro presenza? Ernik più si domandava cosa ci facessero tutti lì a compiere un rito assurdo nella speranza che tutti coloro affetti dal morbo venissero accettati, più trovava incredibile che persino un uomo arrogante come il re non decidesse di ordinare l'irruzione forzata nel cunicolo della cava dal quale tutti attendevano l'uscita dei Rituali.

Poi, finalmente, un'alta figura completamente incappucciata sotto ad un lungo mantello marrone scuro, uscì dalla roccia. E lesse i nomi.

A mano a mano che coloro che erano stati accettati dagli spiriti pagani venivano chiamati, a due a due, altre figure incappucciate uscivano dal cunicolo e si facevano largo tra la folla, recuperando uno per volta i malati.

Quando le orecchie di Ernik udirono il nome di Amila, un calore crescente si fece largo nel suo stomaco in subbuglio.

Poi la roccia venne richiusa e tutti, malati e Rituali, scomparvero dalla loro vista.

Fu allora che, intorno a loro, si levò un grido di dolore. Per tutti coloro che non erano stati accettati, quelli la cui vita era destinata a cessare nel giro di poche ore.

In quel momento, Ernik si rese conto che qualcuno in particolare era stato rifiutato. E, come quella di tutti, la sua espressione diede voce al suo stupore.

Le porte del tempio si erano chiuse prima che re Gohr potesse entrarvi.

LA QUINTA LAMA (III) - I supplizi del potereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora