Capitolo 1

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Dal letto guardo il soffitto di camera mia, che ormai è divenuta la dimora del fine settimana. Come un bed and breakfast, con la differenza che non devo pagare. La moneta di scambio è la mia salute, qualunque cosa significhi.

L'afoso sabato è stato identico a quelli degli ultimi due mesi. Il viaggio in auto con i miei genitori, convinti che venendo a strapparmi entrambi dalla prigionia alla quale mi hanno costretta sia d'aiuto per avvicinarci, la colazione che non volevo, le domande che avrei evitato, i loro occhi incapaci di decifrare l'enigma, e i silenziosi interrogativi che emergono dalla loro mente: "Perché sei così? Come puoi essere la stessa bambina che tenevamo tra le braccia?".

Di tutta questa storia, la cosa che più fatico a digerire è il dovermi sentire un ospite indesiderato. Dicono che non è così, ma gli adulti tendono a colmare le proprie mancanze, ad espiare le loro colpe, tramite atti di compensazione. La creazione della famiglia felice è il loro compromesso, le preghiere che il prete li costringe a fare per liberarsi la coscienza. Secondo, in ordine di fastidio, è il fatto che a me l'estate è sempre piaciuta. Vivendo ad un passo dalla spiaggia era lì che la notte andavo ad ascoltare quel suono che tanto mi tranquillizzava.

Adesso luglio volge al termine, e quel suono non lo sento da due mesi. Certo, potrei andarci il fine settimana, ma i miei genitori hanno deciso di non perdermi un attimo di vista. Non posso nemmeno chiudermi a chiave in bagno, figuriamoci rimanere qualche ora da sola fuori dalle mura domestiche. È umiliante, e mi domando come facciano a non comprenderlo.

Perfino il soffitto che osservo non sembra lo stesso. Prima, guardandolo, cercavo l'ispirazione per scrivere qualche pagina di diario, oppure gli mostravo le lacrime, certa che mi avrebbe protetta. Adesso invece ci vedo soltanto la bianca pittura apatica, proprio come quella della clinica. Sì, clinica, perché per quanto si ostinino a definirla un centro in cui si possono creare sinceri rapporti, non è altro che un luogo in cui abbandonare un oggetto. Come quando si portano un paio di scarpe da un calzolaio e si va a prenderle quando si ha l'assoluta certezza che non causino più danni ai piedi. I miei genitori mi hanno mandata lì perché troppo scomoda, e sperano che possa tornare a calzare perfettamente, senza intralciare i loro passi verso un futuro piatto, senza alcuna emozione o novità.

Mi sento vuota, nemmeno il dolore mi tiene compagnia.

La maniglia della porta si abbassa lentamente. Eccola, è venuta per il controllo di routine. Se fingessi di dormire eviterei il suo ritorno. Se invece la osservassi, tornerebbe al prossimo giro d'orologio. La porta si schiude, ed io opto per la prima. Sento i passi di mia madre avvicinarsi pesanti, nonostante lei creda di non far rumore. Mi sfiora la fronte e lotto per non scostarmi. Poi sussurra qualcosa di incomprensibile, forse una preghiera, ed esce proprio come è entrata: di nascosto, timorosa di dovermi osservare. Devo trovare una soluzione, non resisterò ancora a lungo.

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Eccola, la parata della domenica mattina. La tavola agghindata a festa, i cornetti del bar vicino, la spremuta fresca, i bicchieri di vetro e l'immancabile caffettiera posta al centro, regina indiscussa dei risvegli. Mio padre e mia madre uno di fronte all'altra a capotavola, ed io posta tra loro, a domandarmi quanto si aspettano che mangi.

«Tieni Aurora. Vuoi anche della spremuta?» Chiede mio padre porgendomi un piattino con sopra un cornetto.

«No grazie, preferisco il caffè.»

Non provo nemmeno a dire di non avere appetito, non mi è concesso il digiuno. Tre pasti al giorno completi, senza possibilità di contrattazione. Se soltanto avessi più libertà...

«Allora, stai pensando a quale scuola ti piacerebbe frequentare? Ormai ti manca un anno.»

Avrebbero dovuto essere due, ma i professori, forse per paura di ritorsioni, hanno deciso di concedermi il diploma di quarto superiore. Avevo tentato di spiegare a mia madre che sarei stata felice di ripetere l'anno in una scuola diversa, ma la mia idea non è nemmeno stata presa in considerazione. Come se l'uscita di scena in ambulanza non fosse già abbastanza, mi è toccata pure la figura di "ragazza speciale", alla quale non servono interrogazioni o voti sufficienti per superare l'anno.

«Sì mamma, credo che opterò per il liceo artistico.»

«Vuoi andare di nuovo così lontano?»

«Quasi tutti gli istituti superiori sono nel centro di Messina. Uno vale l'altro.»

«Hai detto bene, quasi. Qui vicino c'è l'istituto agrario, ci vanno tutti quelli con cui sei cresciuta.»

Mi aspettavo questa risposta, ma non so come controbattere. Non voglio dirle la verità perché non le piacerebbe ascoltarla.

«So che è più comodo, però forse ho capito cosa vorrò fare e le materie agrarie non mi serviranno.»

«Va bene, ne riparleremo.»

«Non c'è molto di cui parlare. Voglio andare lì.»

Segue uno sguardo di disapprovazione, ed io mi volto verso mio padre per disinnescare il conflitto.

«Allora papà, hai saputo se dovrai fare quel viaggio di lavoro?»

Prima di rispondere si volta verso mia madre, quasi le chiedesse il permesso.

«Ho scoperto di poterlo evitare. Riguarda un corso di aggiornamento, ma non è l'unico dell'anno. Potrò andare ad ottobre, quando credo che...» si interrompe. Trattengo il fastidio, attendendo che trovi il modo più semplice per tirarsene fuori.

«Sarà di certo un viaggio più comodo. Spostarsi con questo caldo non è piacevole.»

Addento il cornetto per evitare di rispondere. Perdo l'impeto quasi subito, poggiando di scatto il pasto sul piattino. Quando riacquisisco compostezza però, mi rendo conto che entrambi mi osservano. Sorseggio il caffè per guadagnare tempo, e anche per farmi aiutare ad ingoiare l'indesiderato boccone. È ora che io provi a cambiare, sono stanca di interpretare il ruolo di topo da laboratorio.

«Davvero è così brutto? Andiamo Aurora, provaci.»

L'incoraggiamento di mio padre, oltre ad incrementare la rabbia, mi dà l'ennesima conferma di quale sia l'unico modo per fuggire dai riflettori: la menzogna. Do un altro piccolo morso, evitando questa volta di gettare il cornetto di riflesso. Mastico, mastico e mastico il mio veleno, buttandolo giù in attesa che mi uccida. Un altro piccolo morso, poi uno ancora e quello successivo. Venti minuti dopo, con il cuore in fiamme, ho terminato la colazione.

«Ti va di fare una passeggiata questa mattina? È una così bella giornata» dice mia madre entusiasta per la mia conquista. È la prima volta in due mesi che ci riesco, come biasimarla.

«A dire il vero vorrei guardare qualcosa al computer.»

«Dai Aurora, per quello hai tempo durante la settimana. Verrei anch'io, ma devo occuparmi di alcune cose» interviene mio padre. Ecco perché è tanto importante che accetti la proposta, non vogliono perdermi di vista.

Arriva un momento di rottura, un istante in cui bisogna ribellarsi a quanto non si accetta. Fino ad ora ho assecondato loro e chi mi segue, fino ad ora ho accettato di non mentire e di manifestare apertamente le mie preferenze. L'ho fatto solo perché così mi era stato chiesto. Ma da parte dei miei genitori non noto alcun cambiamento, nemmeno un minimo di dialogo. Credono che io sia matta, che le mie convinzioni siano prive di senso. Non accettano che abbia ragione, non si domandano se quel che sostengo sia a sua volta sostenuto da fatti concreti. Se loro non cambiano, non vedo perché debba farlo io. Ci ho pensato tutta la notte ed il mio punto di rottura è arrivato questa mattina. Da oggi proverò in tutti i modi ad essere, per la maggior parte del tempo, la figlia che desiderano.

«D'accordo mamma, camminare fa sempre bene.»

L'ombra di AuroraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora