Capitolo 2

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Il ritorno in clinica è migliore del ritorno a casa. In due mesi ho conosciuto alcune ragazze, entrandoci in confidenza nonostante non le reputi amiche, e a parità di scelta preferisco passare il mio tempo con loro piuttosto che con i miei genitori. C'è Anna, la mia compagna di stanza che come me salta imprevedibilmente da euforia a svogliatezza; Luisa, appassionata di film che tenta in tutti i modi di farci conoscere quella che lei definisce "la più personale tra le forme d'arte"; Serena... Sul suo conto non so cosa dire, non riuscirei mai a descriverla. So soltanto che forse è quella a cui tengo di più, anche se evito di dimostrarglielo. Per la maggior parte del tempo è scostante, ma quando qualcuno, chiunque sia, ha un crollo, è sempre in prima linea a farsi carico della battaglia.
Ci sono anche altre ragazze e un paio di ragazzi, ma non ho mai avuto modo di parlarci.

«Ciao Aurora, ti va di parlare un po'?»

E poi c'è lei, Maria. Ventisette anni, quasi psicoterapeuta certificata, aveva svolto qui un tirocinio in passato. La sua empatia ed il sincero interesse hanno convinto la direttrice ad assumerla. Nonostante non possa ancora seguire dei veri e propri cicli di terapia, è colei che fa breccia tramite dialoghi informali. Credo sia la vera anima di questo posto, gli occhi e il cuore della clinica.

«Certo.»

Ci dirigiamo nella sala comune, che per quanto sia arredata in modo da farci dimenticare dove siamo, con poltrone, un divano, una grande tv e perfino un piccolo angolo bar dove si può trovare di tutto meno che alcolici, non posso fare a meno di associarla ad uno di quei manicomi che si vedono nei film. Manca solo la musica esasperante di sottofondo.

«Com'è andato il fine settimana?»

Chiede sedendosi in una delle poltrone. Prima di sedermi anch'io, prendo due thè e gliene porgo uno.

«Come sempre. Maria, sono costretta a tornare a casa?»

«Sai che qui ci sono poche costrizioni. Ma perché questa domanda?»

Devo iniziare ad introdurre il discorso. L'unica persona alla quale non vorrei mentire è lei, ma per andarmene non ho scelta. Per convincerla avrò bisogno di tempo, ma per quanto sia intelligente ed intuitiva, sono certa che la sua empatia giocherà a mio favore.

«Perché inizia a far male. Forse, e sottolineo il forse, i miei genitori non hanno del tutto torto.»

Un grande punto interrogativo sembra apparirle in fronte.

«Un cambio di prospettiva drastico dalla scorsa settimana.»

Non devo forzare la mano.

«Ho pianto sabato notte, come non facevo da tempo. È successo qualcosa.»

Subito la sua espressione si ammorbidisce. Questa è la Maria alla quale dovrò mentire.

«Cosa?»

«Ero a letto e non riuscivo a prendere sonno. Quando ho visto la maniglia della porta abbassarsi, ho capito che mia madre stava entrando per il solito controllo, così ho finto di dormire. Si è avvicinata silenziosamente, chinandosi su di me e accarezzandomi la fronte, proprio come si fa con un bambino. Mi è sembrato di avvertire le sue lacrime. Poi ha sussurrato una frase: "Ti prego, fa che non le accada nulla". Mi ha dato un bacio sulla fronte, è uscita dalla stanza, ed io mi sono sentita morire. Sono caduta subito in un sonno profondo, o sarebbe meglio dire che sono stata trascinata in un sogno. Mi chiedo quante volte lei mi abbia dato quel bacio, magari mentre dormivo. Ma quel sogno...»

Mi volto evitando il suo sguardo. Gioco con il bicchiere agitatamente. Vorrei che si trattasse di finzione, ma sono davvero in ansia. Devo inventare un sogno che sia convincente, che testimoni la mia considerazione di un altro punto di vista.

«Non sei costretta a raccontarlo. Potrai farlo.»

«No, voglio farlo» la interrompo illuminata da un'idea.

Mi concedo un altro istante, poi tolgo il primo mattone che mi farà evadere.

L'ombra di AuroraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora