Capitolo 43

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«Niente di cui debba preoccuparti» dice con il solito tono evitante.

«Certo, perché solo tu puoi stare in pensiero per qualcuno.»

«Aurora, che stai dicendo?»

«Tyler, io capisco tutto quello che vuoi. La mancanza di fiducia, il non essere abituato a parlare e così via. Ma come posso rimanere impassibile di fronte alla tua mano che sanguina? Non ha senso il nostro rapporto se sono l'unica a parlare.»

Mi lancia un'occhiata veloce, poi accosta non appena trova parcheggio.

Prepara velocemente una sigaretta, abbassa il finestrino e fuma in silenzio.

Rimane così, con aria assente, sospeso tra il momento presente e chissà quale altro luogo, lasciandomi ad osservarlo.

In parte ammiro il suo silenzio, nulla a che vedere con il mio. Tyler non finge, accetta se stesso. Non cambia per un gruppo, non si adatta ad una compagnia, cammina da solo.

Vorrei soltanto che l'ammirazione per il suo coraggio non si scontrasse con la frustrazione per i fallimentari tentativi di raggiungerlo.

«Io non capirò mai da cosa dipende la realizzazione o il fallimento di una persona. Sì, l'impegno, il talento e l'intelligenza hanno certamente il loro peso, ma ci sono vite che sembrano essere maledette da un destino già scritto. E per quanto ci si possa sforzare di cambiare l'attuale situazione, sembra sempre che qualcosa lo impedisca. Non ne posso più Aurora, credimi.»

Parla senza guardarmi. Ecco che mi sento distante, ancora una volta, timorosa di sbagliare il prossimo passo. Sono come un funambolo che cautamente prova a raggiungere l'obiettivo, con la differenza che non ho reti di sicurezza che possano attutire la caduta.

«Mi sento in difficoltà con te» dico scegliendo di condividere questo disagio. Vorrei parlare anche di quel che mi ero prefissata, ma non sembra la serata adatta.

«Perché?»

«Perché anch'io sento di non poter cambiare la situazione con te. Ogni volta che decidi di dirmi qualcosa in più, sembra che io sbagli tutto, portandoti a fare tre passi indietro. Non è bello, soprattutto se penso che, per molte cose, ho iniziato a camminare da quando ti conosco.»

«Non è tua la colpa, ma mia. Non puoi starci male, non lo meriti. Io sono così da sempre.»

«Ma tu con me ci riesci, sei entrato nel mio mondo. Il tuo a stento lo vedo.»

Si volta a guardarmi.

«Le mani sono ferite perché spesso ho bisogno di sfogarmi. Lo faccio su una parete o su un palo di legno che ho adibito a sacco da boxe. Oggi ho avuto una pesante discussione con mio padre, ed è una cosa che mi manda sempre fuori di testa. Ti chiedo ancora scusa se non ti ho scritto, ma ero troppo nervoso.»

«Non dirlo nemmeno per scherzo. Anzi scusami tu, se lo avessi saputo non mi sarei permessa di dire niente.»

«Ora vuoi dirmi che succede? Perché eri così arrabbiata quando sono arrivato?»

Di questo devo accontentarmi. Brevi attimi in cui schiude una porta. L'unica cosa che mi consola è l'intenzione di mostrarmelo quel mondo, rifiutando l'idea che possano mancarmi le lenti attraverso le quali osservarlo.

«Perché mia madre non cambierà mai, ed è inutile che ci speri.»

«Mi domando spesso se parte della colpa non sia di noi figli. Quando discuto con mio padre è diverso, con lui siamo sempre stati più amici che parenti. Quando accade con mia madre, però, mi sento tremendamente in colpa. Le ho dato tanti di quei motivi di preoccupazione negli anni, che non so come abbia fatto a sopportarmi.»

«Io so di non essere del tutto innocente, ma è brutto sentirmi dire che non sono altro che una ragazza malata.»

Le ultime parole le avrei evitate volentieri, ma sono uscite prima che la coscienza mi fermasse.

«Posso chiederti una cosa?»

«Certo.»

«Come l'ha gestita? Intendo anni fa, ai tempi della clinica.»

Adesso sono io ad accendere una sigaretta. Il ricordo di quel periodo, per quanto strano possa apparire, mi provoca sempre un sentimento nostalgico. Odio ammetterlo, ma fatta eccezione per Tyler, in quel luogo ho conosciuto le persone che più mi hanno fatta sentire a casa.

«Non l'ha gestita, molto semplicemente. Si è limitata a fare quel che doveva, e quando ogni fine settimana lei e mio padre venivano a prendermi, era come se si aspettassero un miracolo. Ogni domenica mattina imbastivano la tavola della colazione, e attendevano impazienti che dessi il primo morso ad un cibo che per loro sapeva di speranza.»

Lentamente, per la prima volta, fa scivolare la sua mano sulla mia. Questo contatto funge da sedativo per la rabbia che subito viene ricacciata in giorni di incomprensione, in mattine di solitudine.

Stringo dolcemente le sue dita, facendogli comprendere che non voglio che interrompa il fragile legame.

«Sono certo che non lo facessero con cattive intenzioni. Quel che non si comprende è difficile da gestire, e l'amore incondizionato raramente porta alle scelte giuste. Le loro colpe sono anche la loro condanna. Colpevoli di non aver capito, e condannati a non capire mai.»

«Ed io come dovrei comportarmi?» chiedo in cerca di risposte.

«Quando lo capirò, te lo farò sapere. Non esiste legame più complesso di quello tra genitori e figli, credo che entrambe le parti non smettano mai di imparare. Ci si limita, quasi sempre, all'adattamento reciproco.»

Mi chiede una sigaretta, e mi piace pensare che lo faccia per non dover lasciare la presa.

Gliela porgo, e nel silenzio più rassicurante che abbia mai udito, guardiamo ad una notte che prego divenga eterna.

L'ombra di AuroraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora