Capitolo 60

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"Devo andare davvero ai box" disse Catherine, una volta che mi staccai dalle sue labbra. Volevo riassaporarle di nuovo, ma si staccò subito.
"Non puoi andare più tardi?" chiesi infastidito da tutta questa urgenza.
"No. Mi hanno inviato un messaggio prima, dicendomi che appena avessi finito con te, dovevo andare da loro" rispose, radunando le sue cose e alzandosi. Fece solo un passo prima che un espressione sofferente dipingesse il suo volto. La caviglia doveva farle parecchio male.
"Si può sapere perché a me non chiedi aiuto, ma a Max Verstappen si?" chiesi inviperito da ciò che avevo scoperto prima. Il fatto che l'olandese l'avesse aiutata ad arrivare qui, mi faceva infuriare. Era stata tra le sue braccia e nella sua macchina, e non mi andava per niente bene.
Nel mentre, mi alzai e la sostenni per un braccio, costringendola a lasciare un po' del peso del suo corpo sul mio.
"Non ho chiesto aiuto a nessuno, ha fatto tutto lui, come stai facendo anche tu in questo momento, tra l'altro" rispose cercando di tenere l'equilibrio su una gamba. A quel punto lasciai perdere, anche se sapere che lei in realtà aveva rifiutato, mi faceva arrabbiare ancora di più. Ciò significava che Max avesse fatto di testa sua, fregandosene di ciò che voleva, in realtà, Catherine.
Non dissi più nulla. Semplicemente, avvolsi un suo braccio intorno alle mie spalle, e un mio braccio intorno al suo bacino. Poi la sollevai e iniziai a camminare.
"Che diavolo stai facendo?" chiese sorpresa e in imbarazzo allo stesso tempo. Era una delle poche volte che aveva mostrato vergogna da quando la conoscevo. La prima era stata in macchina quando mi aveva confessato di essere eccitata. Era divertente vedere come le sue guance si tingessero un po' di rosso. Infatti, non riuscii a trattenere una risata, che portò l'inglese a rivolgermi lo sguardo più fulminante possibile.
"Velocizzo i tempi" risposi con un sorrisetto.

"Charles mettimi giù" ripeté per la decima volta. Eravamo quasi arrivati ai box, ma non la smetteva comunque di convincermi a rimetterla con i piedi per terra. Inoltre si guardava intorno sperando che nessuno ci notasse. Ma a quell'ora del mattino, di martedì, non c'era quasi nessuno nel paddock. Noi eravamo uno dei pochi team che amavano prepararsi prima per la gara. Anche se in realtà lo facevamo solo per cercare di tirare fuori il meglio dal peggio. La nostra macchina non era all' altezza delle prime e, lavorarci il più possibile, limitava i danni.
"Charles, ti prego. Se ci sono paparazzi non-" continuò a cercare di insistere. Ma la fermai subito.
"Non c'è nessuno. E comunque non stiamo facendo nulla di male. Non ti sto baciando, ti sto solo aiutando visto che hai avuto un problema con la caviglia" dissi continuando a camminare e ignorare il suo sguardo fulminante.
Sospirò consapevole che non l'avrei fatta scendere, perciò non parlò più.
Solo quando fummo all'interno dei box, le permisi di tornare con i piedi per terra, ma la tenni comunque vicino a me per darle sostegno e non farle perdere l'equilibrio.
"Ehi" ci salutò stranito Jack, il mio ingegnere di pista. Ci osservava confuso, alternando lo sguardo da me a Catherine, la quale si stava trattenendo dall'andare nel panico. Sembrava temere il fatto che gli altri potessero scoprire di noi.
"Mi sono fatta male alla caviglia e Charles mi ha aiutata" disse subito, anche se Jack non aveva fatto nessuna domanda. Questa paura mi dava leggermente fastidio. Anche io volevo che gli altri rimanessero all'oscuro di tutto ciò, ma non perché avessi vergogna di lei. Volevo avere il tempo necessario per vivermela lontano da tutto e da tutti, senza i paparazzi che ci seguivano ogni cinque secondi, senza i fan che ci riempivano di insulti e senza i colleghi che avrebbero fatto considerazioni poco carine su come Catherine, per loro, avesse ricevuto quel lavoro. Era questo che cercavo di evitare, mentre lei sembrava voler nascondere tutto ciò perché non volevano che la ricollegassero a me. Sembrava addirittura escludere la possibilità di uscire allo scoperto più avanti. Ma dovevo stare calmo. Avevamo detto a piccoli passi, e sapendo quanto la paura le invadesse l'anima, mi imposi di pensare positivo. Più avanti le cose sarebbero cambiate.
"Oh... tutto bene?" chiese preoccupato il mio ingegnere di pista, ridestandomi dai miei pensieri.
"Sisi, tutto bene. È una semplice storta. Domani sarò come nuova. Comunque... Qual è l'urgenza?" chiese per cercare di spostare l'attenzione da lei. Non le piaceva che le persone si preoccupassero per il suo stato di salute. Probabilmente non amava parlare di sé e basta, qualsiasi campo esso sia.
"Un problema nelle traiettorie. Vieni con me" disse Jack, porgendole un braccio come appoggio. Io, però, non volevo mollare la presa su di lei.
"La posso aiutare io" mi offrii, facendo spallucce come se fosse una cosa da niente.
"Tu devi andare da Andrea, perciò l'aiuto io" disse il mio ingegnere di pista, esortandomi a muovermi. Riluttante, rallentai la presa dal fianco di Catherine, che ora mi stava guardando di nuovo male. Non era contenta di ciò che era appena successo. Essermi offerto di accompagnarla, quando non c'era un bisogno necessario, non era una buona mossa per non destare sospetti, anzi. Ma volevo ancora avere un tocco diretto con il suo corpo, soprattutto dopo essere stato lontano da lei per una settimana. E se non fosse stato per il fatto che l'inglese doveva venire qui ai box, l'avrei fatta mia in quel motorhome per l'ennesima volta.
"Me ne ero dimenticato, ma ora vado" risposi, per poi lasciare definitivamente il corpo di Catherine, guardarla di sfuggita un'ultima volta e, facendo un cenno del capo in segno di saluto ad entrambi, andare via.

Quando un paio di ore dopo, tornai nel punto in un l'avevo lasciata, di lei non vi era nessuna traccia. Mi guardai intorno per cercare Jack, e lo trovai al monitor insieme al capo meccanico. Non andai a chiedergli dove fosse per non destare sospetti, anche se la voglia di saperlo subito mi invadeva completamente il corpo. Controllai ogni parte dei box e del motorhome, ma in nessuno di questi due posti vi era Catherine. L'irritazione iniziava a salire. Era talmente cocciuta dal volersela cavare da sola, che era disposta a sentire il dolore alla caviglia invece che chiedere aiuto.
A passo svelto uscii dal paddock, per poi arrivare al parcheggio e dirigermi verso la mia auto. Volevo andare in hotel a vedere se fosse lì. E se fosse stato così, capire perché non mi avesse chiamato. Ma proprio nel momento in cui ero a pochi metri di distanza dalla macchina, la vidi appoggiata ad essa.
Mi sentii sollevato. Non aveva voluto disturbarmi e aveva camminato fin qui da sola, ignorando la sofferenza, ma mi sentii rincuorato dal fatto che mi avesse aspettato e che non fosse andata via senza neanche avvisarmi.
"Potevi aspettarmi ai box" le dissi quando arrivai a pochi centimetri di distanza dal suo corpo. Mi guardò con le sopracciglia aggrottate.
"E farmi trasportare come un sacco di patate per la seconda volta in una giornata? No, grazie" rispose, per poi staccarsi e cercare di arrivare allo sportello del passeggero. La fermai vedendo l'espressione dolorante, che nonostante cercasse di nascondere, appariva sul suo viso.
"Sei tu che mi costringi. Sei così testarda da non chiedere aiuto" dissi sostenendola per un braccio stavolta. Pian piano riuscimmo ad arrivare vicino alla portiera, che aprii prima che cercasse di farlo lei. Ovviamente mi guadagnai per tutto il tempo un'occhiata truce da parte sua, ma non me ne curai. Una volta entrata, rinchiusi la portiera e feci il giro dell'auto per accomodarmi al posto del guidatore. Prima di partire mi girai a guardarla, ma lei aveva lo sguardo rivolto davanti a sé. Quanto avrei voluto afferrare il viso e baciarla, però dovevo ricordarmi del pericolo dei paparazzi. Perciò chiusi gli occhi cercando di trattenere il bisogno di farlo, e quando li riaprii, dopo pochi secondi, misi in moto.

I Need You // Charles LeclercDove le storie prendono vita. Scoprilo ora