Capitolo 3

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Per due volte. Per due cavolo di volte, Charles Leclerc, mi aveva dato buca. E potevo cercare di chiudere un occhio e mantenere la calma alla prima e alla seconda volta, ma alla terza, la mia pazienza aveva raggiunto il limite. Perciò, a passo sicuro e cercando di contenere tutta la rabbia accumulata, iniziai a perlustrare, da cima a fondo, il circuito per trovarlo.

Era da ore che correvo da una parte all'altra del paddock per trovarlo, ma stavo perdendo le speranze e la rabbia cresceva sempre di più dentro me, a tal punto da farmi quasi uscire delle lacrime dagli occhi. Come sempre riuscii a sopprimere le mie emozioni, fermandomi un secondo per fare dei respiri profondi.
Poi mi diedi della stupida, perché mi venne in mente un solo posto in cui, ancora, non avevo controllato. Forse il più scontato di tutti. Il suo motorhome. Quindi, con la mia ultima speranza, cambiai rotta e mi diressi verso quella direzione.

Quando bussai alla porta, stavo cercando di pensare e, di conseguenza, formulare le parole giuste da dire. Non dovevo far trasparire i miei sentimenti, perché altrimenti gli avrei dato la soddisfazione di essere riuscito a fare quello che voleva. Se c'era un'altra cosa che avevo capito di lui, dopo solo il primo 'incontro', era che amava portare le persone all'esasperazione. Soprattutto quando non gli andavano a genio. E, appena aveva incrociato il mio sguardo, aveva deciso che io ero una di quelle.

Quando la porta venne aperta, però, non mi diede neanche il tempo di aprire bocca. Appena vide che ero io, la richiuse con forza. Spalancai gli occhi per la sorpresa. Tutto mi aspettavo, tranne quel gesto irruento. Dovetti fare almeno altri tre respiri per convincermi dal non fare qualcosa di stupido. Aprii la porta da sola, sapendo a quel punto, che non era chiusa a chiave. Ero ormai rassegnata dal fatto che non avremmo mai avuto un rapporto civile, ma comunque dovevamo tenere un rapporto lavorativo.
"Mi sembrava di essere stato chiaro sbattendoti la porta in faccia. Non voglio avere niente a che fare con te" disse sbuffando, subito dopo la mia entrata. Non mi aveva neanche guardata, continuando ad allenarsi con il simulatore.
"L'ho compreso molto bene. Ma dato che non sei tu a pagare il mio stipendio e non devo rispondere a te ma al mio e al tuo superiore, che tu voglia o no, dovrai avere a che fare con me" dissi con un sorrisetto finto. Avvicinandomi di qualche passo, il minimo indispensabile per cercare di guardalo in faccia, anche se lui non aveva intenzione di prestarmi attenzione.
"Ah quindi ancora non sei stata licenziata?" chiese con nonchalance. Pensava davvero che Mattia, dopo le sue parole, avrebbe potuto mandarmi via? Purtroppo per lui, quelle decisioni, al contrario di quanto pensasse, non erano di sua competenza.
"Per tuo grande dispiacere no. Quindi fino a che non mi licenzieranno, dovrai presentarti alle nostre riunioni. Ti devo spiegare le strategie" risposi decisa.
A queste mie parole, finalmente staccò gli occhi dallo schermo e mi guardò divertito.
"Non mi devi spiegare proprio niente. Le strategie me le faccio da solo. Sto io in quella macchina, non tu." ribatté per poi tornare ad ignorarmi. Ed è proprio a quelle parole, che soddisfatta, mi appellai.
"Appunto. Tu sei in macchina e dovresti sapere meglio di me che non puoi vedere tutto quello che succede al di fuori, da lì dentro. Perciò non puoi sapere cosa è meglio o meno fare. È per questo che serve il team. Devi avere fiducia in chi lavora per te, altrimenti non andrai da nessuna parte" conclusi, aspettando in una sua reazione, che però non arrivò. Ero convinta, però, che queste mie ultime parole lo avrebbero portato un minimo a ragionare e, in parte, a darmi ragione.

Infatti il giorno dopo si presentò, anche se senza salutare. Si accomodò sulla sedia e mi esortò a parlare il più velocemente possibile. Sospirai senza ribattere. Almeno un miglioramento c'era stato, e si era presentato. Per il momento mi dovevo accontentare. Perciò iniziai a parlare.

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Dovevo ammettere che Catherine Smith fosse ostinata. Avevo provato a farla cedere in tutti i modi e mostrando le parti peggiori di me, ma non aveva funzionato. Il fatto che fosse stata ingaggiata senza la mia approvazione, mi faceva ribollire il sangue nelle vene. Ma aveva ragione quando diceva che non potevo fare tutto da solo. Se volevo dare il massimo, macchina permettendo, dovevo contare sul mio team. Solo che non riuscivo a fidarmi completamente di lei. Nonostante le strategie che mi aveva illustrato, fossero valide, c'era una parte di sé che teneva nascosta e, quel lato che invece mostrava, mi incuteva timore. Sembrava studiarti e capirti con un solo sguardo e lo aveva fatto con me il giorno in cui l'avevo incontrata per la prima volta. Era riuscita a capire che per me era importante vincere, ma non solo per avere la gloria del momento. Per me era molto di più. Lei però non doveva capire cosa in realtà si celasse dietro la mia rabbia di non riuscire a salire sul gradino più alto di quel podio. Lei non doveva trapassare quel muro che avevo costruito, anno dopo anno, per cercare di tenere lontane le delusioni. Lei doveva stare fuori da qualsiasi cosa riguardasse la mia vita.

I Need You // Charles LeclercDove le storie prendono vita. Scoprilo ora