Capitolo 22

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EDITH

Ci dicono che l'amore non sia dolore e sofferenza. Questa però è una bugia. Una bugia enorme. L'amore è anche dolore e sofferenza; eppure, nell'infelicità si trova pure la contentezza, perché si lotta per qualcosa che si vuole. Perché ci si aggrappa all'ultimo barlume di speranza per ottenere una vittoria. E non ha importanza se non la si dovesse ottenere. Le cose non sempre vanno per il verso giusto, ma bisogna provare per riuscire. Ringraziare, sempre, per il tempo dedicato e andare avanti. Nulla ci è dovuto. E in fondo, il “Meglio aver amato e perso che non aver amato affatto” lo comprendo di più, adesso. Adesso che ho amato e perso...

***

Per un attimo il mondo divenne immobile, e persino il mio cuore cessò di palpitare, straziato da un dolore del tutto nuovo - ancora a me sconosciuto -. Lo trovai a pochi metri di distanza, scoprendomi completamente cotta di lui.

Dante ed io ci conoscevamo da così poco, che sarebbe stato stupido avanzare delle pretese; eppure... Eppure io sentivo che mi apparteneva in qualche modo.

Che pensiero egoistico, Edith.

Dal suo aspetto dismesso, la camicia nera, stropicciata e fuori dai jeans, intuii che avesse lavorato fino a tardi - presto, per il resto della popolazione che viveva di giorno - e che non fosse tornato a casa a riposare.

Perché si era preoccupato per me.

La sua pelle, colore caffè latte e ricoperta in parte da una leggera patina di brillantini blu, rendeva quel ragazzo - dall'aria stanca, ma comunque bellissimo - una visione di luccichii onirici, quasi iridescenti.

Un sogno...?

Sfarfallai le lunghe ciglia un paio di volte. Forse avevo le allucinazioni... Dopotutto non avevo dormito affatto.

Solo in un secondo momento parve accorgersi del mio pessimo stato d'animo: «È successo qualcosa di grave?». La voce era tornata calma, venata di preoccupazione. Mi guardava come se fossi stata di inestimabile valore per lui. Lui, che conviveva con Fabian, dormiva con Eva e si sbaciucchiava con altre... Per non parlare del suo lavoro - o che si prostituisse -!

Distolsi lo sguardo dal mio interlocutore, rannicchiandomi sulla panchina e raccogliendo le ginocchia al petto. Vi poggiai sopra la fronte, serrando gli occhi e la bocca.

Le persone non erano oggetti da possedere; però...

Non volevo giudicarlo e nemmeno aggredirlo del mio dispiacere, della parvenza di quanto potessi sentirmi tradita. In fondo, cos'ero per lui se non una conoscenza?

Neanche tanto simpatica tra l'altro.

«Qué pasa mi niña?» mormò all'improvviso accanto a me. Il suo alito mentolato ed il fiato caldo, mi solleticarono il capo.

Alzai il viso di scatto, ritrovando il suo a pochi centimetri dal mio, inginocchiato davanti a me. Aveva sul serio scavalcato il cancello della scuola per raggiungermi?!

Mi fissava apprensivo e bisognoso di sapere cosa fosse successo, pronto ad affrontare qualsiasi ostacolo per raggiungermi. Nella sua bontà, lo trovai crudele.

Se fosse stato un disgraziato e un volgare Casanova, mi sarei sentita giustificata nel sentirmi ferita... Invece, con la sua dolcezza e quello sguardo preoccupato, peggiorava solo la situazione, provocandomi sensi di colpa. Era un principe azzurro dei tempi moderni alle prese con un timido topino nelle vesti di fanciulla.

Non meritavo le sue attenzioni.

Ero proprio patetica.

«Tu... Sei successo tu.» biascicai fra le lacrime, ritornando in posizione fetale e lasciando che la brezza di fine Marzo mi congelasse a poco a poco.

«Io?». Lo udii alzarsi in piedi.

Annuii senza adocchiarlo, nascondendogli la mia espressione contrita: «Ti ho visto.» precisai.

«Mi hai visto...?». Il suo tono di voce divenne frastornato e stranito, colmo di quesiti inespressi.

«Con un'altra. Una ragazza dai capelli rossi.» puntualizzai.

«Ah...».

Strinsi il tessuto della lunga gonna, vergognandomi della mia stupida gelosia: «Vattene via.».

«Cosa?!» sbottò.

«Va via!». Avevo raccolto tutte le mie energie per tirare fuori la voce e mostrarmi emotivamente coinvolta. E come unico risultato, avevo ottenuto solo monosillabi in risposta.

Una magra consolazione.

Ero ridicola e infantile. Proprio quanto Dante.

Scosse il capo: «No, non me ne andrò.».

«Perché?!» mi alzai dalla panchina per pormi davanti a lui. Lui che tentava di sfuggirmi malgrado quello che diceva.

«Edith...» mi redarguì, ma io ignorai il suo tono di avvertimento, tallonandolo e seguendolo per tutto il giardino. Sembravamo due bambini.

«Tornate dai tuoi amanti e non...». E all'improvviso, lui, esplose.

«¡Porché me gustas! Me gustas mucho... Chuca*, mujer, cállate...». Stavolta fu lui a inseguire me.

Indietreggiai fino a raggiungere la porta dello sgabuzzino, sul retro dell'edificio, spaventata dalla natura dei suoi sentimenti.

Si avventò su di me e tutto il mio coraggio venne spazzato via da un suo bacio. Uno di quelli che mozzavano il fiato e facevano tremare le ginocchia.

Se fossi stata una persona forte, avrei avuto abbastanza amor proprio per cacciarlo via, interrompere quel contatto appassionato - che sapeva di angoscia e lacrime -, e proseguire oltre, a testa alta. Invece mi lasciai travolge da tutte quelle emozioni e trovare conforto fra le su braccia, nonostante il dolore al petto fosse aumentato.

Chissà quante ragazze aveva baciato prima di me la notte scorsa... che stupida.

*Chuca: parola del gergo volgare, in cileno, equivale al nostro: "caz**"

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*Chuca: parola del gergo volgare, in cileno, equivale al nostro: "caz**".

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