34. Break Stuff

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fissando la Morte
fino a diventare ciechi.



Il refettorio dell'Istituto puzzava di broccoli. Il mercoledì servivano minestrone e io odiavo il minestrone.

Quand'ero più piccola e mi rifiutavo di mangiarlo, mi davano della pasta in bianco al suo posto, ma avevano smesso da un po'. Piuttosto mi lasciavano morire di fame.

Avevano anche smesso di obbligarmi a mangiare quello che non mi piaceva, dopo quella volta che avevo vomitato tutto il piatto di piselli sulla divisa bianca dell'infermiera.

Il giorno migliore era il sabato sera: ci davano la pizza e il gelato come premio per essere sopravvissuti agli esperimenti della settimana. Mi sforzavo sempre di leggere le barzellette disegnate sul biscotto che ricopriva il gelato, ma non mi facevano mai ridere.

Ormai c'erano poche cose che mi facevano ancora ridere.

Tutto quello che provavo era angoscia, tristezza e una rabbia lacerante che mi consumava da dentro lo stomaco. Un po' come il minestrone.

Ero seduta a un capo della lunga tavolata, Greggy era di fronte a me. Gli altri bambini erano lontani, avevano paura di me, di quello che potevo fare. Il bimbo dagli occhi grigi mi fissava preoccupato.

«Non mangi?» bisbigliò, prima di ingollare una cucchiaiata di minestra.

Scossi la testa e continuai a mescolare il brodo. Un alone giallastro di olio aveva imbrattato i bordi del piatto, pezzi di carote, teste di broccoli e fagiolini galleggiavano sulla superficie come pesci morti. D'un tratto, un cubetto di verdura si librò a mezz'aria, scivolando via dal liquido marrone con uno schiocco sordo. Feci per guardami intorno, quando quello mi colpì in fronte.

Slittai lo sguardo sui bambini alla mia sinistra, ridacchiavano.

Cristian, il ragazzetto dalla pelle olivastra e gli occhi a mandorla mi osservava divertito. Si strinse nelle spalle e diede un morso alla sua rosetta di pane.

La rabbia mi salì alla gola, un'ondata così forte da annebbiarmi la vista per un attimo. Sentivo la testa leggera per la botta improvvisa di adrenalina, le mani mi fremevano per vendicarmi.

«Dori, lascia stare» mi scongiurò Greggy.

Ignorai il mio compagno di mensa e assottigliai gli occhi. Speravo che Cri si strozzasse. Immaginai la mollica incastrarsi nel suo esofago, le briciole della crosta che gli graffiavano la faringe. La trachea chiusa, l'aria che non voleva saperne di passare.

Il bambino asiatico iniziò a tossire e si portò le mani alla gola. La faccia sempre più rossa.

Gli altri ragazzini intorno a noi ansimarono di sorpresa, pietrificati dal terrore.

Non c'erano adulti nei paraggi che mi avrebbero fermata e io volevo che soffocasse per avermi umiliata e derisa. Tutti loro dovevano soffocare.

Il tavolo iniziò a tremare.

Greggy mi afferrò la mano. «Dori. Basta, gli fai male.»

Mi voltai a guardarlo e, per un attimo, rimasi imbambolata. Mi persi nel grigio dei suoi occhi, così cupo e malinconico, come il cielo prima di un temporale. Le nuvole mi circondarono, librandomi in aria, facendomi sentire sottile come una piuma. Una sensazione dolce di calore mi riempì il petto. «Non essere arrabbiata» disse lui.

Non ero arrabbiata. Ero tranquilla, libera, in pace.

Mi lasciò andare alla mano e sbattei le palpebre, un po' confusa.

Cristian tossì fortissimo, tanto da farci sussultare tutti, come se stesse vomitando un polmone. Invece, sputò una pallina di pane mezza masticata, poi ispirò finalmente aria, tornando a respirare. Nara, al suo fianco, gli diede un paio di pacche sulla schiena.

La bimba dalla pelle color caramello mi lanciò un'occhiata spaventata e distolse subito lo sguardo. Li avevo spaventati, forse per un po' non mi avrebbero dato fastidio.

Non ero contenta, però. Non mi piaceva quello che aveva fato Greggy: mi interrompeva sempre. S'infilava nella mia testa, mi rubava i pensieri e li cambiava.

Strinsi entrambi i pugni.

Il coltello in plastica si alzò dal mio vassoio e puntò dritto alla gola del mio amico, che spalancò gli occhi grigi per la sorpresa.

«Non farlo mai più» sibilai in un sussurrò.

«Mi dispiace» piagnucolò, le lacrime gli velavano lo sguardo. «Non lo farò più. Scusa.»

Lasciai andare la posata, che gli cadde in grembo.

Ero cattiva, me ne rendevo conto. Ero spaventosa, a volte crudele con quei bambini. Non ero la più grande lì dentro, ma ero quella che ci viveva da più tempo, quella che aveva subito la maggior parte degli esperimenti. Ero morta più volte di tutti loro, conoscevo più quell'Altra Parte rispetto alla realtà che mi circondava. Non ero mai uscita dalle mura dell'Istituto, non avevo mai visto il mare dal vivo, o accarezzato un animale. Non conoscevo amore, non ricordavo gli abbracci dei miei genitori, ma solo rabbia, paura e morte.

Un giorno o l'altro avrei distrutto quel posto e disintegrato tutte le persone che c'erano dentro. Avrei abbracciato il mostro orrendo che mi avevano fatta diventare.

Immagine: https://unsplash

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APOKALYPSIS [Thanatos Trilogy Vol. 1&2]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora