37. Epilogo: My own summer

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Correvo così veloce da non distinguere gli alberi dal nero della notte. Avevo corso per ore, ma non ero né stanca, né dolorante. Mi sentivo potente, eppure qualcosa strisciava sotto la mia pelle, strappandomi dalle labbra una risata sinistra.

Era la rassegnazione alla morte, il presentimento maligno che mi ricordava che ogni cosa ha una sua fine, anche la vita. Che non ne vale la pena di essere felici, che ogni sorriso è destinato a dissolversi.

Raggiunsi una piccola radura e rallentai il passo. Davanti a me c'era un piccolo laghetto artificiale, un molo sottile si allungava sulla superficie nera. L'erba umida di rugiada accarezzava le piante dei miei piedi scalzi. Avanzai sul manto fresco, fino a incontrare la passerella di legno. A pochi passi dal bordo, mi sfilai il vestito bianco. Avevo la pelle d'oca ma non sentivo freddo.

Non sentivo nulla.

La luna si rifletteva pallida e surreale sullo specchio d'ossidiana. Portai le mani sopra alla testa, piegando le gambe per darmi slancio. Il mio corpo spezzo la calma della superficie e il tuffo risuonò nel silenzio.

Sprofondai nell'oscurità gelida.

Non si vedeva nulla là sotto, né il fondale, né le alghe lunghe che mi accarezzavano la pancia.

Quando riemersi, feci un respiro profondo e mi sdraiai di schiena, muovendo le braccia per rimanere a galla. Lasciai che l'acqua fredda si portasse via ogni mio peccato, ogni pensiero, ogni mia colpa. Lasciai che mi battezzasse, che risanasse le mie ferite, anche quelle che erano nascoste sotto la pelle.

Non sarebbe bastato, però, lo sapevo: ero un mostro e come tutti i mostri meritavo di stare insieme a loro, nelle tenebre del fondale.

Qualcosa mi afferrò per la caviglia, sentii gli artigli conficcarsi nella carne e, senza che mi fosse concesso un ultimo respiro, venni restituita agli abissi.

Mi svegliai di soprassalto, con tanta foga che rotolai giù dalla barca in cui avevo dormito. Finii a carponi e vomitai tutto il contenuto del mio stomaco.

Un'emicrania lancinante mi comprimeva il lato sinistro della testa. Mi pulii la bocca con il dorso della mano e, a fatica, mi alzai in piedi.

Non c'era nessuno nei paraggi, per fortuna. Nessuno che avesse assistito al mio risveglio traumatico o al mio riposino abusivo nella pancia di una barca da pesca sulla spiaggia. Mi sentivo uno schifo, non solo fisicamente per i postumi di quella droga maledetta che avevo assunto, ma anche perché quel sogno così strano mi aveva turbata nel profondo.

Ero davvero un mostro? Lo ero sempre stata? I miei ricordi erano ancora frammentati, ma ricordavo di essere stata crudele con gli altri bambini, con Greg persino. Avevo ferito gli infermieri che volevano costringermi a sottopormi ai loro esperimenti, ne avevo uccisi alcuni. Avevo appiccato un incendio all'orfanotrofio, così come a casa di Filippo.

I miei amici, le persone che mi avevano aiutata, erano tutte morte a causa mia. Erano rimaste incastrate nel ginepraio di rovina e violenza che era diventata la mia vita.

Carlo si sarebbe mai ripreso? Mi domandai come stesse in quel momento, se fosse in una sala operatoria, se avessero già ricucito la ferita alla gamba e il taglio alla mano, o se l'incidente avesse causato complicazioni. E se non fosse sopravvissuto? Se l'ospedale in cui l'avevo portato non era equipaggiato per la gravità delle sue condizioni?

Mi presi la testa tra le mani, non ero certa di poter accettare la morte di Carlo.

Era stato così gentile e comprensivo con me, nonostante tutto il male che avevo causato ai suoi amici, alla loro famiglia.

APOKALYPSIS [Thanatos Trilogy Vol. 1&2]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora