1 - Fuga dal Messico

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Thalia

Le lancette dell'orologio a pendolo rintoccavano le quattro del mattino, e tutto era pronto: la valigia mi aspettava davanti all'ingresso, insieme allo zaino e al giubbotto di jeans.

Scesi gli ultimi scalini di marmo che conducevano a quell'immenso salotto dai colori tenui, lo feci in punta di piedi per non rischiare di svegliare qualcuno. Avevo raggiunto la mia camera un'ultima volta per prendere un post-it rosa e una penna, ora ero scesa di nuovo di sotto per lasciare un biglietto sul tavolo della cucina.

Ero davvero pronta a fuggire alle prime luci dell'alba? A lasciare la mia casa, la mia famiglia e la mia città? Ero davvero così coraggiosa?

Il fatto che scrissi su quel biglietto che sarei partita, senza precisare il dove e il quando sarei tornata, era di per sé una risposta a quelle domande. Ero coraggiosa, ero pronta.

Posai quel biglietto sul tavolo della cucina, accanto al cesto della frutta, poi raggiunsi l'andito che collegava le varie stanze alla porta d'ingresso. Raccolsi lo zaino da terra e mi accertai che al suo interno ci fossero i documenti, il portafoglio, il telefono e il biglietto aereo che avevo acquistato la sera prima. Avevo tutto.

Infilai il giubbotto di jeans e mi misi lo zaino in spalla, impugnai il manico della valigia e varcai la porta d'ingresso.

Una pioggia scrosciante mi accolse mentre correvo lungo il vialetto, fino ai grandi cancelli in ferro battuto. Oltre la recinzione che delimitava la mia casa, mi attendeva il taxi che mi avrebbe accompagnata in aeroporto.

«Hola, en el aeropuerto por favor.» comunicai al tassista.

Quell'uomo, sulla cinquantina, scese dall'auto nonostante la pioggia e mi aiutò a caricare le valige nel bagagliaio.

«De acuerdo, señorita.» mentre salivo in macchina, vidi il tassista lanciare un'occhiata tesa all'enorme casa alle nostre spalle. Il suo sguardo era fisso sul campanello, sulla scritta dipinta a mano che recitava "Casa Anderson".

Non disse nulla però, salì di nuovo al posto del guidatore e mise in moto la vettura, diretti all'aeroporto.

Attraverso il vetro del finestrino, osservai Ciudad del Mexico ancora addormentata e avvolta dall'oscurità, il sole non era ancora sorto sopra i tetti di tegole rosse della città.

Provavo un senso di paura immane mentre fuggivo, perché era per questo che stavo raggiungendo l'aeroporto. Scappavo dal mio Paese, dalla mia città. Scappavo dalla mia famiglia, dalle scelte sbagliate e dagli errori che la perseguitavano. Scappavo da mio padre che, dopo anni di assenza e dopo esser fuggito con un'altra donna, era ripiombato nelle nostre vite con il solo scopo di sconvolgerle.

Era bastato che si presentasse sull'uscio di casa nostra una mattina di giugno, mia madre poi si era fatta abbindolare dalle sue scusanti e da dolci ma fasulle parole. Gli aveva permesso di insinuarsi ancora una volta, come fosse un tarlo, in ciò che era rimasto della nostra famiglia ormai a pezzi.

Non riuscivo a tollerare il suo ritorno, non potevo sopportare la sua presenza in ogni angolo della nostra casa, non dopo ciò che i miei occhi videro negli anni o dopo quel vuoto che mi attraversava il cuore, mai colmato.

Mi dispiaceva soltanto che avrei fatto preoccupare mio fratello, con quella fuga.

«Hoy el cielo parece llorar.» disse il tassista, forse per riempire quel silenzio infranto soltanto dalle canzoni che trasmettevano alla radio.

Non era solo il cielo a piangere quel giorno, anche il mio cuore era triste e spezzato, da troppo tempo.

Avevo aspettato per mesi che quella situazione cambiasse, che prendesse una piega migliore. In un primo momento ero quasi certa che se ne sarebbe andato ancora una volta, che non appena si fosse stufato di noi avrebbe fatto le valige e sarebbe partito, avevo quindi aspettato quel momento. Non successe, lo avevo sottovalutato.

𝔒𝔟𝔰𝔢𝔰𝔰𝔢𝔡 - Rose sfioriteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora