Diamond 7

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Mi alzai, incrociando il suo sguardo.

Era sincero. Ne ero certa. Ma non riuscivo a fidarmi completamente di lui.

<Voglio andarmene da qui.> dissi, sentendo il petto stringersi mentre il suo braccio continuava a sanguinare per il vaso che gli avevo lanciato. Sembrava non farci caso, come se non provasse alcun dolore. Lo mosse come se non ci fosse nessuna ferita, nonostante il camice fosse macchiato di rosso.

Ritrasse la mano e mi guardò negli occhi, la sua espressione seria e la postura impeccabile mi fecero rabbrividire. C'era qualcosa in lui che mi metteva ansia, un senso di timore.

<Potrai andartene solo dopo che ti avranno curato le ferite.> disse con calma.

<Non voglio che si avvicinino a me. Sono capace di prendermi cura di me stessa.> risposi con un tono che, a confronto con il suo, sembrava appartenere a una bambina ribelle, in piedi dinanzi a un uomo severo e autoritario che neanche il più grande dei problemi poteva smuovere.

<Non era una richiesta.>

<Ma cos->

<Lucas!>

Nella stanza entrò l'infermiere di prima, colui che mi aveva messo la flebo e che avevo visto subito dopo aver aperto gli occhi.

<Mi dica, Signore.> disse, con voce professionale.

<Cura le sue ferite e poi portale qualcosa da mettere, non può andare in giro con questi vestiti fradici.>

<Ehi! Io sono qui! E come ti ho detto, non ho bisogno di aiut...> non riuscii a concludere la frase prima che lui uscisse dalla stanza.

Era come se non fossi lì. Si comportò come se io non fossi nella stanza. In pochi minuti era passato dall'offrirmi il suo aiuto all'ignorarmi completamente.

<Non ho bisogno di cure. AHI! FAI PIANO!> protestai mentre mi prendeva il braccio e lo bloccava per iniziare a pulire il sangue e disinfettare la ferita.

<Chi è quell'uomo? E come si chiama?> chiesi con insistenza.

<Queste domande dovrebbe rivolgerle a lui. Io non sono autorizzato a parlare con i pazienti di questioni al di fuori del mio lavoro.> rispose con tono distaccato.

<Sei fastidiosamente noioso. Non lo saprà nessuno, so che è uno psichiatra, ma il suo nome?> insistetti.

<Come le ho già detto, io non sono autorizzato.> ribadì, senza cedere.

Da chi doveva ottenere l'autorizzazione? Da quell'uomo? Riusciva veramente a incutere timore anche con la sua assenza?

Severo, impassibile, autoritario: il perfetto prototipo di psichiatra che eviterei ad ogni costo.

<Vado a prenderle dei vestiti puliti, aspetti qui.> disse, prendendo il suo kit e uscendo, chiudendo la porta dietro di sé.

Non aspettai un attimo e uscii subito dopo di lui. Dovevo conoscere la verità. Lo psichiatra menzionò alcune registrazioni; dovevo trovarle, eliminare ogni dubbio e punire chiunque mi avesse fatto tutto questo.

Attraversai rapidamente il corridoio, cercando l'uscita. Scendendo e risalendo molte scale, girai in diversi passaggi, ma nulla: quel luogo sembrava un labirinto senza fine.

L'ambiente era completamente bianco: dal pavimento alle pareti, tutto si presentava di un bianco luminoso, intervallato da accenni di rosso e oro mentre ognuna delle maniglie delle porte presentava il volto di una figura mitologica; sulla porta della mia stanza ricordo vi fosse un Pegaso, mentre altrove vidi un Cerbero, un Tifone e una Chimera.

Tutto era impeccabile, dai quadri ai vasi con i fiori, alle tende. Nulla risultava storto o fuori posto. Come se quella clinica fosse priva di errori.

Finalmente, trovai l'uscita e spalancai il grande portone ramato, dove un'incisione in oro brillava: "Errare humanum est, persevare diabolicum".

Mai studiai il latino, ma potevo intuire che non si trattasse di nulla di entusiasmante. Quando varcai la porta, il mondo sembrò crollarmi addosso. "Eddai", pensai con un sospiro di frustrazione. Mi ritrovai completamente avvolta dalla natura, senza una via d'uscita né di ingresso, solo alberi a perdita d'occhio.

Che cosa avrei dovuto fare ora? Tornare da lui? Preferivo morire piuttosto che incrociare di nuovo quei suoi occhi dorati.

<Signorina, i suoi vestiti.> disse l'infermiere, con alcuni indumenti piegati tra le mani.

<Non li voglio. Come posso andarmene da qui? Passano i taxi?> chiesi, con impazienza.

<Si vesta e poi la accompagneremo noi.> rispose con calma.

<Non ho bisogno che mi accompagnate. Dimmi solo che numero devo chiamare per un taxi.> ribattei, con un accento di fastidio nella mia voce.

<Non avete il telefono. Ve lo daremo indietro quando avrete finito di vestirvi. In seguito, vi riaccompagneremo in città.> replicò.

Fastidioso. Non smetterò mai di ripeterlo. Fastidiosissimo.

<Per lui, vero? Quello psichiatra? Stai eseguendo i suoi ordini come fosse Dio stesso.> commentai sarcasticamente.

<Mi segua.> concluse, rientrando.

Alzai gli occhi al cielo e vidi un'altra incisione, al di fuori del portone: "Nosce te ipsum".

<Se non ho altra scelta...> sbuffai, seguendolo in una stanza poco distante, nella quale mi cambiai. Era come tutte le altre: bianca. Un colore che cominciò a provocarmi sensi di nausea.

<Fatto. Ora il telefono e il taxi, Lucas.> dissi, cercando di mantenere un tono calmo.

Mi diede quello che gli chiesi e mi riaccompagnò fuori, dove ci attendeva una macchina bianca con l'autista. <Lui vi porterà ovunque desiderate.> disse l'infermiere.

<Io ho dett-> non riuscii a concludere la frase che Lucas si voltò dandomi le spalle. <DOVETE SMETTERLA DI IGNORARMI!> urlai. L'infermiere si voltò, guardandomi per un attimo prima di rientrare nella clinica senza proferire parola. Era la seconda volta che accadeva nel giro di una giornata.

Io non vengo ignorata. Sono io ad ignorare. Diamond One.

<Voglio tornare in città.> dissi all'autista, mentre lui metteva in moto e partiva.

Strinsi il polso, che ancora pulsava, sprigionando calore e dolore.

<Hai mai incontrato quello psichiatra? Alto, occhi come il miele, capelli neri, e sicuramente non amichevole?> chiesi, guardandolo dallo specchietto.

Non ottenni alcuna risposta. Nessuna parola.

Né a queste domande, né al resto delle mie affermazioni e domande.

Sembrava invisibile, un fantasma.

Odio questo posto.

Dopo alcuni minuti, la macchina si fermò e io scesi senza nemmeno salutare, trovandomi nel cuore di São Paulo. Non riuscii a ricordare la strada, quindi mi incamminai sperando che la memoria tornasse, diretta verso quella "discoteca". Verso il luogo dove tutto era cominciato e dove tutto sarebbe finito.

Lì avrei scoperto chi erano quei mostri e avrei finalmente compreso se lo psichiatra era sincero o se si è semplicemente preso gioco di me.

The PromiseDove le storie prendono vita. Scoprilo ora