Diamond 60

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La vita è dolore, la vita è paura e
l'uomo è infelice. Ora tutto è dolore e
paura. Ora l'uomo ama la vita, perché
ama il dolore e la vita.
Fëdor Dostoevskij

La solitudine è il sentimento più diffuso nell'umanità, ma al contempo è anche quello più sottovalutato.

È il peso dell'abbandono, della continua ricerca di affetto, di attenzione, una lotta interna che può durare mesi o addirittura anni.

La solitudine può spingere l'individuo verso l'isolamento, facendogli trovare conforto nell'emarginazione e nell'amore una fonte di abbattimento. Si inizia a considerare l'affetto come un sentimento falso, si sviluppa la convinzione che non si è degni di essere amati.

Ogni situazione in cui si riceve amore e rispetto sembra strana, difficile da credere. Si manifesta una crescente difficoltà nell'esprimere i propri sentimenti, il dubbio sulla lealtà di chi ci circonda, e una sensazione di oppressione che avvolge il corpo ogni volta che si cerca di pronunciare le due parole "ti amo".

Tuttavia, la solitudine ha anche il potere di rendere forti, di insegnarci a fronteggiare ogni battaglia attingendo solo alle nostre forze. Essa ci conduce a costruire una barriera di protezione contro l'oscurità del mondo, contro il male che schiaccia i cuori senza pietà.

Le persone possono trasformarsi da amici in nemici, da amati in estranei, e restano solo i ricordi nelle nostre menti: le sensazioni vissute, le avventure condivise. Nessuno di noi può sapere se da un momento all'altro, la persona per cui avremmo sacrificato la nostra vita ci tradirà o ci salverà.

Il destino è un enigma impossibile da comprendere o prevedere. Non possiamo sapere cosa accadrà nel prossimo istante, né tra anni. Non possiamo sapere se i nostri amici rimarranno tali o se cambieranno, in meglio o in peggio. Nulla è certo, possiamo solo supporre e affidarci all'ignoto.

Rimasi sola per il resto della settimana. Sentivo la macchina dello psichiatra rientrare a casa a tarda notte e i suoi passi dirigersi verso la camera da letto, senza mai fermarsi a chiedermi come stessi o sedersi a parlare come avevamo fatto nei mesi precedenti.

Oggi era venerdì. Mi vestii come al solito e uscii in giardino. Sentire il venticello che mi accarezzava i capelli e il canto degli uccellini al mattino mi faceva sentire viva, in pace. Non ricevetti più notizie di Luke: non rispose alle mie chiamate, né ai miei messaggi. Non riuscivo a capire perché mi stesse ignorando. Non gli avevo mai fatto del male; al contrario, avevo sempre cercato di supportarlo e aiutarlo. Lo amo sinceramente e, nonostante il suo allontanamento improvviso, avrei continuato ad amarlo.

Da quella notte in ospedale, sembrava che tutti stessero iniziando a tracciare una linea invisibile tra me e loro, anche lo psichiatra iniziò a mostrarsi sempre più distante.

Mi sentii emarginata, intrappolata in questa villa, in questo giardino, sola con i miei pensieri e il costante sentimento di vendetta che mi consumava.

L'unica cosa che aspettavo con impazienza era il momento in cui avrei assistito alla morte di quei due mostri, l'istante in cui lo psichiatra n. 7 avrebbe mantenuto la sua promessa e li avrebbe condotti da me, privi di ogni dignità.

Ancora mi sentivo strana nel vestire magliette a maniche corte, nel dover continuamente guardare quei tagli e quei segni, le ferite che raccontavano la sofferenza a cui sono sopravvissuta, la firma di ogni torto che mi era stato inflitto.

Inspirai profondamente e cercai di riprendere coscienza di quello che mi circondava. Iniziai a passeggiare tra gli alberi mentre il sole accarezzava la mia pelle, abbracciandomi con il suo calore. La rabbia ribolliva nelle mie vene, spingendo il sangue a scorrere più velocemente, infuocato dall'odio crescente che invase le mie giornate senza sosta.

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