Capitolo ventinove

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Se la vita fosse uno spazio chiuso, la mia sarebbe una stanza stretta e buia.

Sì, la immagino proprio così: uno spazio vuoto, l’aria stantia che mi soffoca e le pareti spoglie e piene di crepe. A volte io le dipingo di rosso. Rosso come la rabbia che provo quando me la prendo con me stesso.

Rimango seduto su quel letto al centro della stanza come uno spettatore anonimo, le palpebre socchiuse e il dolore che mi avvolge come una coperta. Bisbiglia qualcosa al mio orecchio, ma lo ignoro. Tutto diventa più soffocante, più pesante, distorto.

Esco dalla stanza buia e affronto la realtà.

Sono di nuovo qui, davanti a casa mia, con gli occhi straripanti di odio e lo stomaco saturo di rabbia. La stessa rabbia che fischia nelle mie orecchie e sbatte contro il mio diaframma come un animale selvatico.

Sarà sempre in grado di farmi sentire la sua presenza. Ogni volta che ho cercato di spedirla nei posti più insondabili dentro di me, lei è tornata in superficie più forte di prima.

Lei non sussurra, ma ruggisce.

Lei non accarezza, ma colpisce.

Lei non è gentile, ma violenta.

E se la chiamo, lei arriva.

Se la mando via, lei rimane.

Infilo le chiavi della macchina nella tasca dei jeans e spengo il cellulare, lanciandolo da qualche parte all’interno della macchina. Guardo il cancello scorrere sul binario e i miei occhi abbracciano la mia casa, il mio incubo, il mio inferno.

Negli ultimi due anni ho incontrato mia madre altrove e non più qui. È rimasto tutto uguale, ma so che non si prende più cura dei fiori e non canta più Little Bitty Pretty One mentre fa svolazzare il suo vestito giallo ad ogni passo di danza. Percorro il vialetto cercando di non abbandonarmi alla tentazione di retrocedere e distruggere l’auto di mio padre.

Mi fermo davanti al portico. C’è ancora la poltrona bianca sospesa sulla quale mia madre si appollaiava quasi ogni notte con un calice di Chardonnay tra le mani e un sorriso nostalgico a stirarle le labbra screpolate, sempre tinte di un rosa pesca. Poi il calice si è trasformato in una bottiglia intera e tutto è andato a puttane.

Salgo un gradino per volta. Faccio un bel respiro e mi fermo davanti alla porta. Sollevo la mano per suonare, ma la porta si apre e la figura di mio padre si staglia davanti a me. Non ho il coraggio di alzare la testa, ma capisco che si tratta di lui. Ho gli occhi puntati sulle sue scarpe nere; percorro lentamente le sue gambe muscolose nascoste dal tessuto dei pantaloni eleganti e poi fisso il suo collo marchiato da un tatuaggio: una falce insanguinata. Come uno scontro di spade in un campo minato i nostri sguardi si incontrano.

E in un solo secondo tutto mi si riversa addosso: l’infanzia, gli allenamenti, i combattimenti, i suoi insegnamenti, i viaggi, le restrizioni, i pianti, il mio corpo martoriato, la rabbia, l’odio, il rimpianto, la perdita di controllo e il suicidio della mia vita sociale.

Se le stelle potessero parlareDove le storie prendono vita. Scoprilo ora