Capitolo diciassette

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Maledizione, non pensavo che tirare un pugno a qualcuno facesse così male

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Maledizione, non pensavo che tirare un pugno a qualcuno facesse così male. Ho un livido sul dorso della mano e servire i piatti al tavolo non è stato così semplice come pensavo, con le nocche indolenzite e l’umore a terra.

Ho dormito tutta la mattinata e non vedo Xavier da quando mi ha insegnato a prendergli quel bel faccino a pugni. Mi chiedo come mai si sia abbandonato ad un atto simile di gentilezza, ma la sua assenza per il resto della giornata conferma i miei dubbi: si sarà già pentito.

Mi trascino pigramente fuori dal letto e do un’occhiata veloce all’ora. Cazzo, è mezzogiorno. Ho saltato la colazione. Prima o poi mio padre inizierà a farsi qualche domanda e so che quel momento è sempre più vicino.

Scendo al piano di sotto con le dita di una mano nei capelli arruffati, impegnate e sciogliere i nodi, e l’altra mano all’altezza dello stomaco. Sto morendo di fame.

Papà è seduto sullo sgabello davanti all'isola della cucina, sembra quasi in attesa di vedermi. Quel suo sguardo severo ultimamente lo sfoggia soltanto quando ci sono io nei paraggi. Le uniche volte in cui mi rivolge un sorriso o cerca di starmi vicino è quando capisce che sto male.

«Ben svegliata! Alla buon'ora!», si alza in piedi e si passa la lingua sui denti, come fa di solito quando è nervoso. I palmi delle mani iniziano a sudarmi e le sfrego freneticamente sulla maglietta. «Ti ho fissato un appuntamento dallo psicologo», esordisce e per poco non mi cedono le ginocchia.

«Come?», batto lentamente le palpebre. Magari ho sentito male. Sì, deve essere così. Papà non ha mai voluto portarmi dallo psicologo. Non aveva ascoltato neanche le suppliche di mia madre. Secondo lui la gente mi avrebbe presa per una bambina disturbata, una schizzata. Se ne sarebbe vergognato tantissimo, soprattutto perché la gente curiosa del posto avrebbe fatto domande e papà non è mai stato bravo a dare spiegazioni. Ha sempre evitato come la peste le situazioni umilianti. Lo turbano così tanto, che sarebbe in grado di sparire, lasciarmi sola e tornare quando la sua autostima si sarà in parte rialzata.

Fuori sento uno schiamazzo. Forse qualcuno si sta facendo il bagno in piscina. Il rumore mi riporta nel presente.

«Hai sentito bene. Penso sia la scelta più giusta. So che non sei riuscita ancora ad ambientarti qui e sto male quando ti vedo così», mi indica dalla testa ai piedi come se fossi un disastro. «Non voglio guardarti mentre ti autodistruggi». 

«Papà, sei impazzito?», chiedo con un soffio di voce.

«No, tutto il contrario», incrocia le braccia davanti al petto, la camicia è stretta e mette in risalto i pettorali. 

«Non ci andrò», sentenzio scuotendo la testa, decisa. Non se ne parla.

«Lo farai eccome, Avery! Brooke è preoccupata per te e non voglio che la merda che abbiamo lasciato alle nostre spalle la trascini qui. È un nuovo inizio per entrambi». 

Se le stelle potessero parlareDove le storie prendono vita. Scoprilo ora