Capitolo quarantuno

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Rimasugli di rabbia rovente mi pizzicano la pelle e mi incendiano gli occhi, ma cerco di serbare un’espressione serafica davanti a lei. La sua confessione ieri notte ha cambiato tutto dentro di me tranne i sensi di colpa, che si sono moltiplicati a dismisura.

Sento lo sguardo di Avery bruciare sulla mia pelle. Mi osserva come se volesse staccarmi la testa dal collo. Forse non gradisce più la mia presenza in questo momento o forse ce l’ha con se stessa per avermi rivelato troppo, ma in ogni caso non ho intenzione di riaprire l’argomento, perché so che non sarei in grado di contenermi.

Sposta l’attenzione sul pasticcino alla crema e fragole, che ho posato con cura sul comodino.

«È per me?», chiede, la sua voce è bassa e fredda.

«Ieri sera lo volevi e visto la sbronza che ti sei presa, pensavo che in qualche modo avrebbe reso il tuo risveglio più dolce, per quanto possibile», unisco le mani davanti alla pancia e cerco di sembrare indifferente.

«Oh, grazie», sposta i piedi sul pavimento e si stringe nelle spalle per due secondi, come se avesse freddo.

Ha vomitato tre volte durante la notte e non ho chiuso occhio, perché la sua fobia adesso è diventata la mia fobia. Non mi fa paura rimettere, ma ho paura di vederla soffocare o svenire.

Ho dovuto assistere a malincuore ad uno spettacolo sgradevole, di lei piegata sulla tazza del water, con il corpo scosso da fremiti implacabili e gli occhi pieni di lacrime.

«Stanotte», inizia a dire mentre afferra il pasticcino, «mentre io vomitavo e tu mi tenevi i capelli, ti ho sentito più distante», mi guarda con la coda dell’occhio mentre addenta il dolce.

«Brutti ricordi, tutto qui», spiego e prendo le buste che ho portato con me. Le getto sul letto accanto a lei e dico: «Ti ho preso delle cose.»

Avery mi guarda come se fossi un’altra persona; come se non l’avessi tenuta tra le braccia tutta la notte, come se non mi avesse mai detto che le piaccio o non l’avessi mai trasportata sulla mia schiena per mezz’ora, soltanto per permetterle di guardare le stelle.

«Perché brutti ricordi?», mi chiede e prende una delle buste bianche.

«Da bambino tenevo i capelli a mia madre mentre riversava la sua anima nel cesso», increspo l’angolo delle labbra, infastidito. I suoi occhi sono cerchiati da un velo di stanchezza e di tristezza, ma dentro quel freddo ghiaccio serpeggia un’innocente curiosità. «È un’alcolizzata», chiarisco, anche se la parola mi scivola come veleno tra le labbra. È amara e pesante, ma non credo di averla mai pronunciata con così tanta… naturalezza.

Trattiene il fiato e mi guarda, anzi mi compatisce, quindi mi affretto a soggiungere: «Avanti, aprila», le indico la busta. Capisce il mio intento e mi asseconda, annuendo e tirando fuori  la salopette di jeans che le ho comprato.

Se le stelle potessero parlareDove le storie prendono vita. Scoprilo ora