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Non era stato lui a occuparsi del caso Cevolini anche se, naturalmente, ne aveva sentito parlare. Leggeva i giornali, seguiva i notiziari e, talvolta, dopo il lavoro, si incontrava con alcuni dei colleghi delle altre caserme della Provincia, e insieme discutevano dei casi più ingarbugliati su cui si ritrovavano a lavorare. Era utile, un modo per avere un'opinione spassionata da qualcuno non direttamente coinvolto nelle indagini. 

Sua moglie lo rimproverava sempre per quell'abitudine, diceva che avrebbe dovuto cercare di rilassarsi un po', che parlare di lavoro anche nel suo tempo libero non gli faceva bene. Non capiva che in realtà sia lui che i suoi colleghi a volte avevano bisogno di condividere il fardello che portavano con qualcuno che potesse capirli. Sì, a volte parlavano tra loro per aver un piccolo aiuto, un suggerimento, perché un diverso punto di vista poteva far emergere dettagli preziosi che fino a quel momento erano sfuggiti, altre lo facevano semplicemente perché certi casi ti caricano sulle spalle un peso dal quale senti disperatamente il bisogno di alleggerirti. I colleghi, a differenza della famiglia, erano i soli in grado di capire davvero il senso di frustrazione che certi casi potevano lasciarti addosso. In fondo anche loro, prima o dopo, lo avevano provato sulla propria pelle. 

Era quello che era accaduto circa un mese dopo la scomparsa di Matteo Cevolini, quando Riccardo Donatti, collega e amico di lunga data che era stato incaricato di seguire l'indagine, lo aveva chiamato per invitarlo a bere una birra dopo il lavoro. Cristiano aveva subito capito cosa si celasse realmente dietro a quella telefonata, aveva sentito nella voce spenta del collega, nell'amarezza che sembrava grondare da ogni frase, il suo bisogno di sfogarsi con qualcuno. 

In quel locale, seduti a un tavolo appartato, Riccardo si era lasciato andare. 

Ogni dettaglio era ancora chiaro nella sua mente, quasi come se la conversazione avesse avuto luogo solo il giorno prima.

Rammentava le gocce che imperlavano i boccali di birra ancora pieni, lo sguardo sconfortato negli occhi castani dell'amico, la profonda ruga che gli solcava il volto, perennemente abbronzato grazie a tutte le ore che passava, nel tempo libero, a cavallo della sua bicicletta. 

«Abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Abbiamo cercato quel ragazzo in lungo e in largo ma niente, nemmeno uno straccio di indizio» aveva esordito il collega. «E la famiglia... io ho cercato di essere comprensivo, come del resto faccio sempre. Posso solo immaginare cosa stiano passando. Non ho avuto figli, lo sai, e devo ammettere che quando mi ritrovo a indagare su casi del genere e vedo cosa passano le famiglie sono davvero felice di questa mia scelta.» Aveva scosso la testa. «Deve essere la cosa più orribile che qualcuno possa trovarsi a vivere. Lo sai, facciamo tutto il possibile per dare alle famiglie le risposte di cui hanno disperatamente bisogno ma a volte non è sufficiente. È terribile, non lo nego, e anzi, è proprio in circostanze del genere che mi ritrovo a pensare che il nostro lavoro fa davvero schifo, ma purtroppo ci sono misteri che sono destinati a rimanere senza soluzione. So che è difficile per le famiglie accettarlo, diavolo, lo è anche per noi! Sapere che tuo figlio è stato ucciso è terribile, ma così... non sapere che ne è stato di lui, non avere neppure una tomba su cui piangere... è mille volte peggio, me ne rendo conto. Ma la madre! Il padre, pover'uomo, lo capisco ancora, ma lei... insomma... non lo capisce che anche io ci sto male? Che per me, questo è un fallimento anche a livello personale?»

La madre di Matteo Cevolini, Jolanda Nannini, a quanto pareva, aveva accolto la mancanza di progressi nelle indagini sulla scomparsa del figlio nel peggiore dei modi possibile. Non solo non si era rassegnata, la qual cosa sarebbe stata anche comprensibile, ma aveva iniziato a perseguitare il povero Riccardo. Lo assillava, lo attendeva ogni giorno all'inizio del turno in caserma. Sembrava convinta che né lui né gli altri suoi colleghi stessero facendo abbastanza, e glielo diceva nei modi più coloriti possibile, tanto che, alla fine, Riccardo aveva perso la calma, e l'ultimo incontro con la donna era degenerato in un alterco furibondo che gli era addirittura costato un richiamo. 

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