2

14.2K 704 79
                                    

Aguzzai la vista, percependo la presenza di Rachel al mio fianco.
"E quelle che diavolo sono?" disse. Sentii il profumo di neve della sua pelle e quello infuocato dei suoi capelli.
"Che io sia dannato se lo so."
Le nuvole, o almeno quelle indistinte masse che si muovevano disordinatamente all'orizzonte, avevano lo stesso colore del vecchio furgone di mio padre. Lo ricordo distintamente, perché quella sfumatura blu notte è uno dei miei colori preferiti.
«È un temporale» concluderete logicamentete voi, «Accidenti, non hai mai visto un temporale estivo?». Vi giuro che non lo era. Se foste stati lì con me e Rachel vi sareste accorti che non poteva essere un semplice acquazzone.
Primo perché quelle maledette nuvole si muovevano con uno schema davvero troppo insolito, e secondo perché non erano attraversate da quel caratteristico lampeggiare dei tuoni, che è tipico dei temporali.
Come se non bastasse, non si sentiva volare una mosca. Quelle nuvole erano silenziose.
Non ci voleva un genio per capire che qualcosa non andava, e Rachel, che era molto più di un genio, mi strinse il braccio.
"Dovremmo metterci al coperto." mi disse. Un altro fantastico aspetto del carattere di Rachel consisteva nel fatto che non imponeva mai un suo pensiero, nonostante avesse quasi sempre ragione, ma lo esprimeva attraverso un condizionale. Stava agli altri decidere se fidarsi o no di lei. Io lo facevo sempre. E quella volta feci più che bene.
Ci incamminammo verso casa mia, una vecchia cascina che avevo ereditato dopo la morte dei miei genitori. A vent'anni ero rimasto solo, ma mentirei se vi dicessi che la mia vita faceva schifo. Certo, avrei preferito avere ancora al mio fianco la mia famiglia, ma avevo imparato ad accettare ciò che mi accadeva, e dopotutto avevo ancora mio fratello.
Entrammo nel cortile e superammo il furgone di mio padre, che ormai cominciava a confondersi con il paesaggio.
La cosa che più mi insospettiva era l'assenza totale dei consueti cinguettii dei passerotti, cosa che in campagna non accade mai. Quel silenzio unito a quella sensazione di vuoto statico mi dava molto da pensare.
Entrammo in casa e fummo travolti da Anubi, il mio grosso pastore tedesco. Si, gli avevo affibbiato il nome di una divinità egizia. Vi starete chiedendo se questa pratica sia anticostituzionale o addirittura blasfema, ed io vi rispondo che non è nessuna delle due, se della religione non vi importa un fico secco. Come diceva sempre mio padre, «Nel tuo recinto, regole tue.»
Rachel aveva un debole per il mio cane, ed in sua presenza nessun problema era abbastanza spinoso per non coccolarlo un po'.
Anubi sembrava davvero agitato quel giorno e, visto cosa c'era fuori, il suo atteggiamento non mi stupiva affatto.
Chiamai mio fratello. Il suo nome di battesimo era Robert Thomas Underwood, ma per tutti noi è sempre stato Zeta, questo perché da piccolo era stato convinto di essere Zorro, finché non si era cacciato nei guai, guai che avevano la forma di una grossa mandria di bufali inferociti. Anche Zeta aveva una mente brillante, ed il nostro rapporto non era burrascoso quanto ci si aspetterebbe fra due fratelli divisi solamente da tre anni di esistenza.
Zeta scese in salotto e ci salutò. Indossava una maglia nera più larga di lui di almeno due taglie ed un paio di jeans neri strappati. Sorrideva, ma i suoi occhi dicevano altro. Credo dicessero: «Ma che cazzo -perdonate il linguaggio, ma i suoi occhi dicevano proprio quello- c'è là fuori?».
Non mi sbagliavo, poiché espresse i suoi dubbi usando esattamente quelle parole.
Salimmo nella mia stanza, che prima di essere ristrutturata non era che la sgangherata soffita mansardata di una cascina.
Mi avvicinai all'oblò a ridosso del mio letto e sbirciai fuori. Sgranai gli occhi. Le nuvole erano sempre più vicine.

The EndDove le storie prendono vita. Scoprilo ora