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Avete presente quando state camminando e vi toccate le tasche dei jeans, sentendo progressivamente il cuore che vi strangola perché avete perso il cellulare, il portafoglio o le chiavi di casa?
Ebbene, il mio cuore, in quel momento, fece un capitombolo del genere.
Un buon medico l'avrebbe chiamato attacco di panico, io lo pensai solo come «Ma guarda un po', siamo nel bel mezzo di un'apocalisse ed io muoio di infarto».
Come vi ho detto, avevo appena alzato lo sguardo verso il luogo dove Anubi puntava ringhiando.
Ciò che vidi aveva qualcosa di inenarrabile.
Per un attimo, pensai che non mi funzionasse la vista, o qualcosa del genere, ma poi, all'improvviso, le due figure che vedevo muoversi rapidamente in mezzo al prato assunsero un significato.
C'era una ragazzina di sedici o diciassette anni. Aveva lunghi capelli rossi e un corpicino esile ed estremamente agile.
«Beh, che c'è di strano?» vi starete chiedendo, ma io ho appena menzionato la presenza di due figure, e fu proprio la seconda a scuotere il mio apparato cardiaco.
Era un uomo, un grosso uomo o... beh, quel che ne rimaneva.
Aveva il corpo ricoperto da ecchimosi, grossi lembi di pelle completamente ustionati, come se si fosse messo a ballare sotto una pioggia di olio bollente.
Era praticamente nudo, se non per dei pantaloncini sportivi mezzi stracciati.
Ricordo chiaramente che era calvo, perché anche la zona della nuca era devastata dalle ustioni. Qualunque cosa avesse subito, era terrificante.
Ma ancor più terrificante fu il fatto che cercava di afferrare la ragazzina mentre sbraitava a squarciagola.
Urlava, urlava e urlava. "Vieni qui, bocconcino, vieni da papà!"
Rachel mi strinse un braccio e mi voltai. Gli occhioni verdi brillavano come quelli di un gatto terrorizzato, e le labbra tremavano leggermente.
"Dobbiamo fare qualcosa, ti prego."
Annuii.
"Fare qualcosa" consisteva nel togliere quella ragazzina dalle grinfie di quel buzzurro, ma era difficile sviluppare un piano d'azione in quel momento.
Feci quel che potevo, improvvisai.
Lanciai un'occhiata di intesa a Zeta ed imbracciammo le mitragliatrici.
Armeggiai per alcuni secondi con quella ferraglia, finché un sordo clic mi diede la speranza di avercela fatta.
Mi avvicinai alla ragazza e al "mostro". Ci separavano circa venti metri.
"Ehi!" Urlai. Si bloccarono. Vidi il bifolco guardare nella mia direzione. Aveva gli occhi vitrei e...
Sussultai.
Erano completamente blu. Aveva quei maledetti occhiacci interamente dipinti di quel "blu follia".
"Lasciala stare!" gridai all'uomo. Colsi profonda indecisione nella mia stessa voce.
L'uomo sorrise. Il risultato fu un ghigno sbilenco, una smorfia terribile che avrebbe danzato nei miei incubi per molto tempo, dopo quel giorno.
Fu un attimo. L'uomo scattò verso di me. La sua velocità non aveva niente di naturale. Credo che potesse tranquillamente tenere il passo ad un'automobile.
Quella scena avrebbe fatto felice anche il più grande tra i registi di Hollywood, ma non me.
Fui colto dal panico, quello vero. La distanza tra di noi si riduceva ad una velocità impressionante ed io non riuscivo a muovere un muscolo.
Non credete a quelle buffonate secondo le quali il protagonista di una storia è coraggioso, immortale e freddo come una macchina da guerra.
Io ero sull'orlo del pianto, estremamente mortale e non riuscivo nemmeno ad alzare la mitragliatrice.
Credete, però, a quando vi dicono che gli ultimi secondi di vita sono rallentati: il tempo è come un elastico, più lo sottoponi ad uno sforzo, più si dilata. E come ogni buon elastico, prima o poi si strappa.
Ero ormai pronto a sentire lo strappo dell'elastico (e quello del mio osso del collo) quando un altro rumore invase le mie orecchie.
Il mio cervello tradusse quel suono frammentario in quello che producono centinaia di biglie di acciaio quando piovono su un pavimento di vetro. Mi immaginai piccole sfere luccicanti precipitare dal cielo e tintinnare a terra.
Poi guardai l'uomo che correva verso di me. Esplose. O, perlomeno, ci andò vicino.
Eravamo a pochi passi di distanza quando successe, ed allora capii. Proiettili. Non erano biglie, erano proiettili. Mio fratello aveva crivellato di colpi quel sacco di merda.
Mi voltai verso di lui con la più significativa espressione di stupore che i miei muscoli facciali potessero produrre, ma non mi restituì lo sguardo. Seguii i suoi occhi e sorrisi.
Zeta aveva appena trovato la sua Rachel.

The EndDove le storie prendono vita. Scoprilo ora